martedì 22 dicembre 2009

L'Uccisore di uomini (Prima parte)


Tra le coltri intrise di un corpo in affanno, si muove l’involucro mio, a cercare posizioni più consone al sonno. Ho in mente un punto del luogo, un punto preciso dove la veglia sfuma nella stanchezza silenziosa della fredda camera di legno. E’ un acuto silenzio, come d’ovatta sulle tempie. Sul comodino una bibbia in tedesco, racchiusa nella copertina di cera nera. Sfoglio le pagine, tradendo l’impossibilità di comprendere. Dio è più spietato sotto il duro stridore dei denti di una lingua del nord. Il sole scende. I ferri del mestiere attaccati allo zaino, due ramponi. Nel tramonto, la crosta delle mie narici, mi toglie il fiato. Tento visioni del ghiacciaio ,ma la luna malefica taglia inesorabile il triangolo di roccia nerastra che ho davanti. Come il fato incombe, come una morte solida. Non è simile a nulla, è la forma, senza un principio, è un dogma di pietra. I volti dei miei compagni, in questi tratti della mia vita, potrebbero essere quelli dei miei compagni nei tormenti d’inferno. Mi guardano, ma siamo appannati da questa ombra immobile, che tutto annulla. Nel silenzio ingannatore, dorme l’uccisore di uomini. Sbiancato dal freddo alone della luna, sembra piegato alla magnanimità. Al mattino, nel frastuono dell’ascesa, da lontano, già odo, lungo le sue pareti giallastre di sole, apparecchi di morte, a recuperare brandelli di vita tra pietre in frantumi.

sabato 17 ottobre 2009

L'odore degli appunti


Nei vicoli del paese, a sera, passo tra luci di vecchi lampioni ed insegne di piccole botteghe. All'improvviso, stretto il maglione al collo, un vento inadeguato a queste mese senza termometro, porta l'odore degli appunti. Sono i quaderni delle scuole medie, fatti di copertine con le moto e le penne a sfera. Un odore di fuliggine dai camini dei vecchi bassi dove le ultime anziane del secolo scorso, bruciavano la sansa, le potature delle vigne, le bucce delle prime castagne, le scorze di mandarini acerbi. Un ragazzino passava, con il pallone nelle mani ed i compiti da fare prima della merenda. Aveva giocato, questo giovane, contro le serrande dei garage, senza la paura delle macchine. Il sudore freddo, dietro al collo gli avrebbe portato due giorni di vacanza a letto, con gli impacchi di semolino sul petto. Erano appunti di storia, di geografia, con gli esami da fare a giugno, nella scuola vicino ai ruderi del Castello. L'odore adesso si fa più intenso e gli fuma in bocca le prime sigarette di nascosto, con il walkman a palla, uno sgualcito libro di filosofia, studiato a tratti dai compagni, tra le cianfrusaglie dei diari scarabocchiati e l'incubo del giorno dopo, a scuola. L'odore degli appunti si ferma al retrobottega della vecchia pizzeria. E' un attimo. L'odore scompare, lasciando questo momento, solo , unico. Ricorderò, un giorno, il ricordo dell'odore degli appunti

giovedì 10 settembre 2009

Sogno sogni della morte


Sogno i sogni della morte.
Inizio a contare i giorni e gli anni che mi separano dalla probabile fine dell’esistenza. Non è un calcolo racchiuso nel catabolismo della mia esistenza. Immagino quelli più vecchi di me, parenti amici dei miei parenti, conoscenti, gente del mio paese che conosco di vista. Provo a ricordarli quando avevano l’età che ho io adesso. Riesco a collegare i giorni nei quali li ho visti e nei quali ho visto, i loro cambiamenti. Stacco la spina del mio specchio nel bagno, la spina che mi fotografa il volto ogni mattina e calcolo i cambiamenti tramite salti temporali. Studio la ruga ai lati della bocca. Essa viene scavata dalle ore, giorno per giorno, ma io non ci faccio caso, apposta. Poi, all’improvviso, dopo mesi, la osservo con attenzione per notare l’accentuarsi del suo solco. Riesco a creare false malattie, morbi virtuali che possano intaccare improvvisamente il mio corpo fino a condurmi al decesso. Confronto il mio viso con quello di mio padre, di mia madre, alla mia età. Li vedo, io piccolo, adulti, anziani. Adesso vedo le figure immobili dei mie parenti, morti, nelle casse, rosario stretto nelle mani. Sono allungato nella bara e vedo sporgersi le mie due figlie a fissare il mio cadavere ed immaginare quello che sto immaginando adesso. Questo sogno, sempre più ossessionante, si alimenta da solo come un feedback, come un uragano sul Golfo del Messico, come una vite senza più giri. Non voglio vivere una esistenza senza il pensiero della morte. Mentre la mano destra si torce per dare gas alla mia moto, emerge ,improvvisa, la sensazione dell’incidente, il vuoto d’aria nell’attimo del disastro, l’occhio spalancato dell’orrida sorpresa, La scarica di adrenalina prima dello schianto. Ho già provato questa sensazione. E’ ebbrezza pura, è silenzio profondo, è inutile affannarsi, è il limite tra essere e non essere più, è confine prima del dolore finale.

martedì 28 luglio 2009

9 anni


Ho passato nove anni scrivendo per un giornale. Non erano articoli di cronaca, ma editoriali nei quali auspicavo, a modo mio, una maniera di vedere la mia città e quello che mi circondava. Sono invecchiato con questi editoriali, sempre sperando la stessa cosa, perché “questa cosa” non stava accadendo. Nonostante la facilità del mio scrivere, ogni riga, mi costava un salto nel vuoto delle incomprensioni, delle antipatie. Ho smesso perché non avevo più nulla da dire e perché la mia parola sembrava dileguarsi in una valle senza eco. Le simpatie e le empatie per ciò che scrivevo sono cadute nell’oblìo, le antipatie sono rimaste, perché “l’odio alimenta la vita e fa l’uomo forte”. Rimangono scampoli di malocchiate. Questo non mi tocca. Mi tocca nel profondo, perché è l’esperimento che faccio da una vita, la rapida deperibilità del consenso a favore di un nebuloso ricordo di gesta eroiche. Una volta, per difficoltà economiche note a molti, riguardanti la mia famiglia, fui costretto ad eliminare dalla mia abitazione degli “oggetti di valore”. Per me gli oggetti valore sono “ i libri”. Mettendoli nello scatolone, piangevo, pensavo alla gravità di quella perdita , anche se momentanea, al fatto che i miei scaffali sarebbero rimasti vuoti per un determinato periodo. La credevo una luttuosa circostanza, mi sentivo nudo, percepivo un senso di vuoto, simile alla vertigine che porta nausea. Questo fu nel ‘97. Qualche giorno fa andai nella cantina dove allora avevo celato le miei gioie. Sono ancora lì da allora. Le avevo scordate. Stavo vivendo la vita. Il tempo ripara tutti i dolori, cancella l’inseparabilità dagli oggetti. Possiamo vedere con una luce nuova le cose e le persone che un tempo furono la nostra aria. Nulla è vitale, soprattutto gli oggetti. Il sapere di sé, la sua perdita, questo è irreparabile. Questa sensibilità, in questo contesto del nulla, è una malattia pericolosa per sé e per gli altri. Tentai la strada della missione, della conversione, con i mie articoli. Pensavo ad un luogo migliore nel quale tutti avrebbero potuto vivere grazie all’arte ed alla cultura. Fu un pensiero fuorviante e pernicioso. Non è rimasto nulla, in effetti. Forse scrivevo per convincere me stesso. Non ci sono riuscito.

“ Se studiamo i volti dei grandi persecutori della nostra epoca, ci colpisce un’aria disgustata, comune a tutti loro. Questo atteggiamento di schifo verso gli altri rende impressionante, per esempio, la somiglianza tra Himmler e Berija. L’impotente che spia gli atti sessuali degli altri, diventerà potente nell’uccidere; è una norma, dire quasi una legge. Analogo l’atteggiamento di Marat e Robespierre.; tutti i virtuosi accusatori dalle mani pulite appartengono a questa risma. I tipi umani delicati e sensibili sono i più pericolosi. Perciò, nella maggioranza dei casi la situazione è più preoccupante quando letterati e professori s’impadroniscono del potere, che non quando sono i soldati a esercitarlo.”

ERNST JUNGER

lunedì 22 giugno 2009

Un uomo


Un uomo si aggrappa alle chiappe di piccole puttanelle, con la speranza di trattenere la vita che lo abbandona. Vede i suoi capelli diradarsi, arretrare sulla fronte. Allora, li colora, li incolla, li friziona. Un uomo si cura, grazie al suo denaro, si tomografizza, si doplerizza, si risuona magneticamente, estrae flaconi dei suoi fluidi, li fa analizzare, li scansiona. Egli è sicuro di trovare nelle cifre, nei range di tolleranza, la formula segreta del rimanere vivo, di contare respiri infiniti, di cagare il più possibile, di mangiare e scopare. Sulle pieghe della sua pelle cadente si accaniscono i chirurghi, le tirano, le tagliano, rinzaffano, rinforzano.; botulini, siliconi, glicogeni, colture epiteliali. Un uomo sopporta i tagli trasversali ai suoi fianchi, dai quali, vengono estratti cumuli di sego, di cellulite, di grassi saturi, insaturi, i quali suppurano nelle sacche, si depositano di siero e sangue, si agglutinano. Un uomo si fa smontare i denti, li ripianti, li devitalizza, li revitalizza, li ceramizza affinchè un sorriso come il territorial pissing, delimiti le zone di competenza per gli altri. Accorrono al suo capezzale, i look maker. Ma dietro le orecchie si notano le linee di tensione, come una maschera che nasconde il volto di un anziano. Allora un uomo, ormai vecchio, si concede di dragare gli umori vitali di morbide pulzelle, tentando erezioni , facendosi manipolare succhiare, leccare, da chi potrebbe essergli nipote, come a sfregiare quello che lui non può più avere: l’essere giovane. Vorrebbe nascondersi a chi lo cerca da tempo, vorrebbe non pensare a chi non può essere comprato dai suoi soldi. Come un novello Sisifo, combatte la sua visione, tentando l’inganno. Così facendo, rende l’incontro ancora più terribile. La maschera della paura, deformerà il suo viso attaccato dai fili del chirurgo, bloccherà le sue viscere, renderà meno fluido il suo sangue. Vedo un uomo, composto sul letto della morte, trovare nel momento il baratro di quello che è stato e che non sarà più, per sempre. Sarà più buia, allora, la sua notte eterna.

mercoledì 10 giugno 2009

Il vecchio


Il vecchio mi guarda mentre sudo. Non emette una parola. Oltre le lenti a culo di bottiglia si espande uno sguardo ebete e diffidente, pronto a cogliere la conferma della prima impressione che ha ricevuto, accogliendomi in casa sua: un drogato tatuato con gli orecchini, probabilmente di estrema sinistra ed ateo. Il vecchio mi sopporta perché non ha trovato altri muratori, ma si stizzisce del fatto che, al contrario di altri del mio mestiere, non stia tutto il giorno a bere birra e ruttare, con il mozzicone della sigaretta in bocca. Non gli do soddisfazione con la mia bottiglia di minerale. Lo sento, dietro al collo, ansimare con il suo alito carico di aglio e cipolle in soffritti di burro e maiale, mentre controlla, le mani giunte dietro la schiena, che faccia qualche errore per poter imprecare contro la mia natura di individuo perennemente imbraccato dalla calce. Non riesce a parlare, perché un ictus lo ha colpito ed ora emette uno strano verso, simile ad una vecchia gallina che tenti di recuperare un uovo ruzzolato dal suo culo, giù per il pollaio. Non capisco vuole dirmi qualcosa, ma muove le mani, lucide di pelle rosea e tirata da vecchio commerciante. Mi sta dietro, mi sta alle calcagna. Punta il filo tra le stadie, per trovare un corpo del delitto, onde potermi vomitare in faccia, un gemito di imprecazione, per i soldi che, gli chiesi in acconto. Trasporto mattoni da giorni. Lo trovo sulle scale mentre ansimo sotto il peso, pronto ad intralciare il mio passo, quasi fosse un ostacolo, da superare per aumentare il mio punteggio sul cartellone. Tossisce cantando un verso indecifrabile, ossessivo. Si avvicina mentre impasto. Garrulo mi indica il forato fuori bolla , appena poggiato sulla malta. Erode le mie tranquillità mentre manovro secchi di sabbia. E’ dietro da giorni al mio lavoro, come un segugio sulla volpe. Sento la sua presenza di vecchio, dietro le terga, con il suo odore, la mattina, di pizza secca ed unta, perché egli fa colazione con il pane del giorno prima, per risparmiare. Non si lava le mani ed utilizza i miei attrezzi, come un untore. L’odore del pane stantio e lubrificato da pessimo olio, mi si attacca ai vestiti, impregna il mio furgone, mi perseguita fino a casa. Mi salvo creando una barriera di motivi cantati a denti stretti, onde evitare un inizio di conversazione da Babele. Gioco di anticipo, tenendolo occupato, facendolo sentire utile. Lo metto a pulire le macerie e so bene che lui mi chiederà uno sconto per questo. Poi esce al balcone. Per un momento sento il vuoto, poi di nuovo la presenza. Così, mentre è chino sui calcinacci a fare ordine, mi avvicino a lui con un forato in mano, alzo la martellina per rompere il laterizio e lascio cadere la testa del martello con tutta la mia forza, sul cranio del vecchio. Il rumore sordo della noce di cocco appena frantumata anticipa di poco, lo schizzo di sangue che inonda i miei pantaloni, la parte bassa della mia camicia ed il mio collo. Il vecchio emette un lungo urlo modulato da un gorgoglio che gli esce dalla gola, subito interrotto da uno spernacchio da spurgo, durante il quale sputa saliva e sangue. E’ ancora chino sul sacchetto e riesce a voltarsi lentamente. Dagli occhiali appannati, lo sguardo della morte punta sulla testa del mio martello che cala con forza di nuovo, in un punto preciso tra naso, zigomo e fronte. Gli entro nel cervello. Cade all’indietro come un sacco vuoto. Impasto la sabbia con il suo sangue e continuo a lavorare. Ora aspetto che vengano a prendermi.

venerdì 29 maggio 2009

La bestia migliore


La mia carne ha uno strano odore. Quando la benda si strappa e viene buttata, intrisa di sangue vecchio e suppurazioni, lo sento l’odore. Ricordo le parti del maiale, appena salate, sul tavolo di campagna, quando si uccideva la bestia migliore, sotto Natale. Quando il mio cranio, dette diretto, sulla soglia dei davanzali, durante la caduta, l’odore del sangue caldo, come il leggero afrore del rosso d’uovo nel piatto. Ora ascolto i nuovi cigolii delle membra ricomposte nelle sedi. Era entrato un dottore, giovane, forse finocchio, a dirmi che le ossa, da quel giorno in poi, le avrei sentite presenti, muoversi, con rumore rotondo, sfregarsi tra cartilagini allentate, immerse nel siero fino a gonfiare la pelle, in sacche da svuotare con l’ago, quello grosso. L’aria del reparto è satura di minestra e mele bianche inacidite. Ho la nausea perché respingo l’odore di me stesso. Le bestie lo sentono il puzzo della paura, lo sentono il puzzo dell’uomo malato. Come una bestia avverto l’odore di un involucro umano sbattuto dai piani alti, ad atterrare sui ferri spigolosi di un montante. Il calore, mi sveglia la notte. Sale dallo stomaco, dallo scroto, dal buco del culo, intirizzito da una contrazione inane. Ora guardo il mio vicino. Un obeso, flaccido giovanotto con una gamba inutilizzabile. Andava, il tipo, per un vecchio deposito di robivecchi, in cerca di pezzi d’autore, quando una lastra di vetro, da una vecchia porta impilata, gli recise il tendine d’Achille, di netto, facendolo stramazzare a terra come un manzo abbattuto. Difficile operazione - andava rimuginando il primario, con il codazzo di apprendisti. Mi guardava con l’occhio della commiserazione, cercando di pareggiare la sua disgrazia alla mia. Mentre parlava, amplificando il suo fato, non rispondevo, ma scoreggiavo silenzioso, non avendo altro da fare, tra un tirante ed un gesso, impastato di sudore. Se ne andò, con la carrozzella delle dodici. Solo di nuovo, con il diavolo che mi alitava sul volto la notte. Dio beffardo, mandami un uomo a pezzi, che faccia sentire quello che è stato per me, poca cosa…

martedì 19 maggio 2009

Asilo incubo


Un cenno del capo. Sotto l'androne alternato di ombre e fioche luci dalle porte a vetro, si espande l'odore di cartelle e mani sporche di astucci e sudore. Una processione, sabba inverso,di suore silenziose taglia in due il corridoio, al suono di scarpe vecchie di cuoio. Sono uscito dalla stanza, dove gli aliti dei piccoli corpi, si mischiano alle corde delle brandine in ordinato cerchio. L'occhio terribile, come del falco che abbia avvistato dall'alto del suo volo la preda, mi punta dal nero velo. E' l'occhio di gesso della madonna a lutto, che orribile fissa il cristo morente nellea tenebra della morte. Un urlo, voce metallica di un kapò, lungo il filo spinato del lager, mi ordina di rientrare. E' l'ora di dormire. Nessuno dei miei piccoli compagni può sottrarsi alla pratica obbligata del sonno. Ma io non riesco. Voglio giocare. Vorrei correre nello stanzone vetrato dove langue un girello scrostato di rosso. Cigola sotto la spinta di noi bambini, quando lieti ci guardiamo nel mondo che gira. Non ricordo i volti, ma ricordo la gioia semplice di un bambino sfuggito agli aguzzini, che gode pochi istanti di un gioco innocente. La suora è un Satana androgino, dalla mano fredda che mi spinge nella stanza del sonno. Non voglio, non voglio. Ora vengo costretto a sedere in lacrime, nel mio banco. Non ricordo. Ho pianto per ore. Una lunga candela di muco mi scende da una narice, le mie mutande sono piene di merda. A sera, quando ho perso oramai la voce e la forza, una mano caritatevole e familiare di sottrae all'agonia della regola. Sono di nuovo nei bagni, prima di pranzo. Bisogna lavarsi. La norma impone le mani, oltre il polso. Ma il bagno si trova , fatta una piccola salita piastrellata, nella sala dei giochi. Non si può giocare prima di aprire i nostri cestini. La suora bagna la salita con il sapone, affinchè i nostri piedi scivolino nel tentativo di raggiungere le giostre. Siamo lì, in fila, che tentiamo di tenerci al muro per affrontare il pendio. Ma il fondo sembra d'olio, i piedi non reggono, torniamo indietro inchiodati, come in quei sogni dove vuoi scappare ma la tua corsa è inane. Altro ambiente. E' L'ora di fare i propri bisogni. Le suore, come negli allevamenti dei cani di razza, tentano di regolarizzare le nostre viscere imponendoci la seduta sui vasini. Vogliamo scappare dal patibolo anale. Ma le torturatrici coi crocifissi al collo, ci ficcano il lembo del grembiule sotto il vasino affinchè ci sia impedita la fuga. Troie, troie! Urlò mio nonno, quando si accorse che tenevano la figlia maggiore, incatenata in soffitto con il tifo, in mezzo ai topi, nonostante avesse pagato rette salate. L'odio per la rinuncia alla procreazione nei grembi, l'impedimento alla funzione di madri, spinge queste donne, serrate nelle vesti della castità, a vendicarsi su piccoli inermi, costringedoli ad una disciplina insensata, fatta di punizioni protratte e continuate, torture psicologiche a piegare gli animi lieti, cristi punitori, vendicativi anche sulle anime semplici di nuovi alla vita. Crescono figli amari, chini ai terrori dell'altare, timorati delle tonache, proni alle leggi senza una causa. Un Dio non dio le ha fatte maschi, senza i sessi. Nel mio sogno, apro i cancelli dei conventi. Libero queste donne alla vita, perchè possano amare , con il corpo, con la mente, affinchè un nuovo Dio, benevolo questi, sorrida alle loro esistenze, le liberi dalle stupide rinunce della mortificazione, inflitte da maschi misogini. Siano troie allegramente, senza le colpe della carne. Continuo ad essere stitico, per principio, comunque.

domenica 10 maggio 2009

Reek of putrefaction

Non ho mangiato carne per tre mesi.
Saturo di cadaveri bovini ho rigettato l’idea del sangue per un lungo periodo a causa della mia stessa materia. Nel gonfiore della sazietà ho immaginato l’azione del vomitare eternamente brani di fese, sottospalla, ali, petti, ventresca. Nel chiarore del mattino autunnale, stretto nel dovere di un padrone chiamato cliente, accetto senza attenzione un lavoro in un piccolo cimitero della zona. Non ho particolare ritrosia nell’affrontare i silenzi delle tombe, anzi l’ovattata atmosfera dell’ambiente dona al lavoro un ritmo meno serrato ed una attenzione altrimenti meno costante in altri consessi. Sono nella cappella di famiglia di un mio amico e lavoro alla sua sistemazione. La cancellata principale si apre ed entra un camioncino dei necrofori. Si tratta delle solite operazioni che loro definiscono di routine, come la riesumazione di resti umani sepolti da anni per la conservazione nell’ossario, in modo da liberare posti per i morti che saranno. I morti nonostante abbiano in sé la fine della nozione di tempo, possono essere riportati per epoche e stili di inumazione. Ma questo è un cimitero particolare. Nei volti, nelle età che leggo avidamente sulle lapidi, è raccontata una storia di estrema miseria e di emigrazione. Una zona estremamente povera che ha visto il partire per altre nazioni come possibilità di salvezza. Chi è rimasto è stato stretto nella morsa della malattia, della povertà. Così negli sguardi di questi uomini, queste donne, miei coetanei, ma così vecchi da sembrare miei trisavoli, ritrovo le carestie di queste paese, dove oggi vengono a morire solo i pensionati. Le foto in bianco e nero, sono scattate, come in un macabro rituale, sul letto di morte. Una fila di bambini, stretti nelle loro fasce, gli occhi serrati nel freddo del nulla, vecchie con il fazzoletto nero, le mascelle strette, gli spigoli duri delle fronti. Forse è il mio Abruzzo, quello che non ho mai voluto vedere. C’è una sorta di strana assonanza con la Basilicata dei Sassi di Matera, quella della civiltà del destino ineludibile, della vita come peso, dell’inanità sugli eventi. Una voce mi risveglia dai miei pensieri. Il necroforo ha bisogno di me. Mi chiede se ho un demolitore perché la lapide della cappella non viene giù. Mi adopero per aiutarli, visto che ho gelosia di riavere i miei attrezzi. Si lavora con delle mascherine e già la cassetta per le ossa che verranno trovate è aperta sul prato vicino. La lapide cede, dalle polverose macerie emerge una vecchia cassa, di quelle intarsiate, ancora laccata di lucido. La scendiamo in tre. La cassa è pesante, e stranamente, non si è sfondata. Mi racconta il becchino preoccupato che di solito una cassa si sfonda a causa della corrosione da parte del liquido di putrefazione. Il fatto che la cassa sia intera, vuol dire che il processo non si è compiuto. Ci mettiamo i guanti. Un giovane necroforo, secco ed allampanato, inizia a rompere il legno della bara. Ai nostri occhi appare come un bozzolo, l’involucro rigonfio di zinco. Sembra una bomba in procinto di scoppiare. Ci guardiamo con sempre maggiore preoccupazione. Con una martellina molto affilata, si inizia ad aprire la lamiera come fosse una scatoletta di tonno. Veniamo investiti dal puzzo della morte. Un puzzo di morte antica che si propaga immediatamente in tutta l’area circostante. Sotto il sole del pallido autunno, riusciamo a malapena in una confusa identificazione dell’ammasso che ci troviamo davanti: la cassa, stranamente , non contiene un morto ma due. Nel liquame putrido, di ossa, vestiti impregnati di una fanghiglia marrone, un tempo carne viva, due corpi,una moglie ed una marito, morti a poca di stanza di tempo, condividono la stessa tomba, divisi da uno strato di zinco ormai consunto. Sotto la moglie, si vede una melma verdastra nella quale galleggiano le ossa del congiunto. Lo spettacolo riesce ad impressionare anche il più vecchio tra i becchini. Non si può tornare indietro. Così, muniti di guanti, tuta e maschere si procede ad estrarre queste ossa ancora inzuppate, per comporle nelle cassette dell’ossario. Più tardi, i tecnici della disinfestazione provvederanno a bonificare l’area. E’ difficile avere il ricordo degli odori, se questi non vengono richiamati alla memoria da un odore simile. Nonostante la tuta e due bagni consecutivi, mi sento nelle narici un olezzo indelebile che impregna qualsiasi cosa mi arrivi alla vista. Mi guardo allo specchio e vedo me stesso, annegato, in quella mota putrida. Vedo il mio corpo, lo vedocambiato rispetto a quello che avevo da giovane, lo prevedo vecchio, cadente, lo vedo morto. Tutto quello che sono, quello che sento, tra qualche anno sarà solo un fastidioso affare per un becchino svogliato.

domenica 26 aprile 2009

La confessione


La libreria era piena. Padre Camillo ficcò con forza l’ultimo quaderno che aveva appena terminato. Il quaderno era uguale a tutti quelli che riempivano quegli scaffali: nero, piccolo, anonimo come le altre decine di quaderni. Anche l’ultimo peccato completava l’ultima pagina. Il parroco li archiviava da vent’anni. Un buco nel confessionale faceva il resto. Il prete riusciva a veder il peccatore. A sera ,nella sua camera, annotava, descriveva, ricordava. Le pagine di quei diari erano la triste realtà di quel posto con pochi cristiani e molti praticanti. La cosa singolare era che Padre Camillo, non rileggeva mai quello che aveva scritto. Lasciava tutto lì, nella pagina, per qualche improbabile erede, qualcuno che avesse vent’anni di tempo per sbirciare nelle mediocrità del popolo. Quella mattina faceva freddo in chiesa. Qualche devoto era seduto sugli sgabelli e Padre Camillo si andò a mettere nel confessionale. Sarebbe venuto qualcuno. Sentì le ginocchia poggiarsi sul legno. Fu allora che dette una sbirciatina nel buco. Ma non vide la persona in faccia. Era alta e portava un abito scuro come il fondo della navata. Parlò. Quella voce, il prete , non l’aveva mai sentita. Sembrava di ascoltare mille peccati del mondo. Da quelle parole, arrivavano alla mente del sacerdote, ricordi lontani, forse sovrapposizioni, forse coincidenze. Non se ne curò molto. A sera, nella sua camera provò a decifrare il senso di quei racconti. Il nuovo quaderno era appena iniziato, con quella massa di peccati usciti dalla bocca dello sconosciuto. Lo sconosciuto arrivò anche il giorno seguente. Tornò per giorni e giorni. Il quaderno stava per finire. Questa volta, Padre Camillo lo aveva riempito velocemente. Fu quella sera. Padre Camillo era all’ultima pagina, ma era stanco. Tentò di rimettere a posto il quaderno nello scaffale. Spinse, facendo forza ,sulla costa di quel registro rigido e consunto. Ma il quaderno non entrava nella fila. Spinse ancora di più e fu allora che la sedia cedette sotto i suoi piedi facendo cadere l’intero scaffale ed il suo contenuto. Padre Camillo si ritrovò sotto la pila di quaderni vecchi. Aveva ancora quello nuovo in mano. Ce ne erano molti aperti per terra. Con un gesto di stizza, scagliò quello che stringeva per terra. Anche questo si aprì al fianco di un altro. Padre Camillo gelò. La pagina era scritta in maniera identica. Sembrava una copia perfetta l’uno dell’altro. Il prete afferrò il quaderno più vecchio...era il primo quaderno che aveva compilato vent’anni prima! Ebbe un mancamento, cadde sul mucchio di carta. Si ricordò il delirio di quella notte, si ricordò di aver vagato tra i banchi della chiesa leggendo ad alta voce quel quaderno. Ora era seduto nel confessionale. Aspettava solo che arrivasse. Sentì il legno adagiarsi sotto il peso. La voce era quello di qualcuno che imperioso detta l’ultima pagina di un quaderno incompleto. Impazzì dal terrore, quando l’essere, dall’altra parte del confessionale chiese a padre Camillo: « Hai altro da confessare, prete?». Un ghigno malefico, coprì le urla del sacerdote...

domenica 19 aprile 2009

Mi viene a trovare


Papà mi viene a trovare. Silenti le suole di gomma sul linoleum sconnesso dell'Ospedale. Reca una busta, stretta dietro la schiena, le mani unite. Una coppetta di gelato, di quelle col biscotto finale. C'è un tumore che porta dietro, al bronco ed al polmone sinistro. Anche questo mi porta, come il gelato. Non sono in camera. Mani forzute e stanche del mio essere prono, mi hanno adagiato su una vecchia carrozzella. Dicono che devono disinfettare la stanza. Posano il mio Cristo vivo, sulla nappa sdrucita del sedile, con l'asciugamano sotto al culo. Con la mano del braccio ingessato, pinzo la ruota per spingermi. Fuggo dal corridoio del reparto, su questa carrozza da storpi, in mutande. Le labbra del taglio alla milza, cucite come un arrosto di Pasqua, rossastre di croste e infezioni guarite, si riflettono sul vetro della porta. Le guardo passando, ruotando, ruttando bestemmie alla Madonna di gesso con fiori di plastica, all'ingresso. Se spegni i pensieri, su una vita intera di carrozzella, l'esercizio del moto seduti, anche piacevole potrebbe apparire. Ma subito torni al volto dell'amico tuo, in catene sulle rotelle, incastrarsi tra il marciapiede e la ruota di un Suv, deriso da ragazzine, che avrebbe potuto avere in mezzo alle gambe, se funzionassero. La vedi e senti, istantanea, la scossa dell'arnese che ti trasporta, come un insetto urticante. Il tuo corpo la respinge. Guardo oltre la vetrata di una sala d'aspetto deserta nel mattino estivo di sanatorio. Lo vedo, papà, uscire dall'ascensore, col sacchetto. Non si accorge di me. Non mi vede sulla carrozzella, non vorrebbe vedermi e così il suo cervello offusca ed annienta la possibilità di un figlio burattino, fantoccio, cosa morta su ruote. Poi si gira, senza parole, realizza. Volto grigio, rughe marroni. Alza la mano, odora ancora dell'ultima sigaretta fumata all'entrata, due dita gialle, mi tirano indietro i capelli. Vorrei non vedesse. Mi spinge in camera. Il gelato si scioglie.

sabato 11 aprile 2009

Le foto sono pietre


Sulla pietra bianca di questo lastrico al sole,
si riflettono, non visti,
gli aloni delle mie anime morte.
Sono respiri, dietro al collo,
che sento, tra i suoni rotondi, delle acque all'unisono.
Quadri di roccia, regolari, come i denti di chi sorride all'obiettivo.
Le foto sono pietre, quando le pietre cadono,
rotolando sul riquadro battuto dai venti.
Questa isola di silenzi, dove le nostre mani non hanno tempo,
rimane, come roccia,
nei miei sogni.

venerdì 10 aprile 2009

La fine della strada


Nonno, raccontami ancora: cosa c'è alla fine della strada?
Niente, Gialluca mio...Niente
Mi tenevi per mano fino a quel mandorlo, e poi?
Ti lasciavo andare nel baratro.
Che faccio, io, adesso, qui senza te?
Taglia le radici dell'albero, Giallù...

lunedì 6 aprile 2009

L'Aquila

Gianluca Di Renzo
L'Aquila
26 Agosto 1968

Era la mia città.

venerdì 3 aprile 2009

Terapia

38 gradi. Dai vetri sudici della camera, un sole diretto, violento, fa ribollire l’aria . Senza sosta, senza pietà, il sarcofago di gesso che avvolge le parti offese di questo corpo è una crosta di vulcano. Tutto brucia, prude, senza possibilità di essere grattato, di essere lenito. Sento l’odore della carne tumefatta e sudata di un corpo immobile ma vivo, prodromi di una piaga da decubito dove l’infermiere amico carceriere della mia infermità, metterà le mani, con strane pomate. Sono in un forno, ma vivo. Lento entra il dottore, zuppo di sudore, sotto il camice, nudo. Lo guardo. E’ il dottore che seduce, dentro ripostigli inutilizzati, le infermiere puttane, pronte all’uso, nella noia del turno di notte, tra i silenzi ed i ronzii delle macchine a tenere in vita i malconci. Un dottore stanco di queste sofferenze buttate tra le lenzuola, cambiate sovente. Questa notte lo strazio. Da una camera lontana, il lamento di un maiale allo scanno, di una donna. Fratture esposte, in suppurazione, di una caduta tra degenti di un ospizio. La donna languiva da giorni nello scantinato senza soccorso. Urla ritmate, appena mani misericordiose sfiorano il suo corpo, come una corda di violino rovente sotto le dita del musico. Sono urla dagli inferi che fanno vibrare le sbarre di vecchio alluminio del mio letto, le cassa monolitica del mio scafandro, il mio petto sudato. Non posso dormire. Potrei essere io, come quella donna un giorno, un uomo vecchio, inutile perché tale, abbandonato da figli crudeli, nel baratro di un caseggiato di cura assieme ad altri grinzosi canuti, dementi, incontinenti, fetenti, dagli sguardi persi nella delusione di genitori che avrebbero amato una carezza dai figli nell’ultimo giorno dei loro respiri, ricevendo al contrario, il dono terribile della morte da soli. Se fossi io quel vecchio, alzerei tra i tormenti questa carcassa di lividi, per trovare un finestra dalla quale gettarmi senza rimpianti. Non mi è neppure concesso un suicidio.

domenica 29 marzo 2009

Ventre


Un ventre gonfio. Un contenitore di escrementi. Due settimane senza alzare il busto, solo lievi torsioni del collo. La pala vuota, sotto le natiche rattrappite. Non riesco. Posso esplodere. Riesco a malapena a pisciare. Dapprima, dovevo far uscire gli altri per concentrarmi sulla mia uretra. Adesso piscio, senza inibizioni, mentre parlo con gli amici, le mogli, i padri, gli zii. Piscio, come se pisciassi loro in faccia. Ho perso l’ultimo alito di ritegno. Un corpo, senza difese, ferito, menomato, perde dignità senza volerla perdere. Ma le mie budella no. Si rifiutano di muovere questo flusso continuo di cibi che ingurgito da quindici giorni. Mio nonno morirà con l’esplosione dei suoi visceri, così, un rumore di sacco sfondato nella notte. Ho il terrore di scoppiare nella merda. Il giovane infermiere mi guarda pietoso a sera, insaccando a forza la pala sotto questo culo inerme, togliendo le lenzuola, tra pesi ed i tiranti, nell’appicicume di un sudore stantio, malamente deterso dagli spugnaggi di una madre madonna. Si scopre il mio cazzo, inutilmente adagiato su una coscia. La sera ha commozione. Ha commozione perché nessuno mi vede nel pianto di lacrime di rabbia e dolore, per la merda che si pietrifica dentro di me. Continuano i clisteri, delle viscide supposte a bruciare senza motivo. Sento il tanfo delle feci risalire lo stomaco, su per la gola, uscire come un olezzo di fogna a turarmi il naso. Allora capisco l’estraneo al di fuori di me. E’ un essere maleodorante, coperto di lividi bluastri, croste di ferite. In balìa di un qualsiasi qualcuno entrasse a violarmi nella notte. Sono veramente io, senza bugie, senza sipari, solo uomo.

venerdì 20 marzo 2009

In morte 1


Sei venuto da me. Ho sentito di nuovo la brezza del nulla, alle mie spalle. Non ti aspettavo. Un brivido. Forse il freddo di questo tramonto, a novembre di traverso, in mezzo agli olivi, appena maltrattati dalla raccolta. Gira sulla mia testa, il falco. Inizio il vortice del mio atlante alla nuca, preso dalla vertigine dell’ala ferma in aria. Un verso di caccia e rapina sui passeri che fuggono sotto l’occhio del rapace. Vivo. Non ho lacrime dell’amore sul viso, non brucio di passioni. Ho il respiro semplice. Non chiedo altro da me. Solo un falco. Ora. Di prima mattina, quando la marea mi rende simile ad un messia sulle acque, ti incontro di nuovo. Tutti distratti i pochi, questo è il momento. Ancora un freddo leggero sulla nuca. Sei da me. Mi dai tempo. Poi, all’improvviso, il sole si scalda e te ne vai. Forse è stato un attimo. Sono nella notte alla rada. Le luci della banchina allungano i silenzi delle navi a riposo. Nel limite fumoso tra la superficie delle acque e la tenebra salmastra, emergi. Un cenno di presenza. Ho tempo, anche stasera. Domani vedremo

sabato 14 marzo 2009

Suicidio dell'Ingegnere


Ho accostato al bordo della strada, l’attenzione, per un attimo. Dalla catene elastiche del mio letto, senza la milza,
il respiro di un vecchio, le labbra di un desaparecido sotto tortura, la visione
del baratro rapido senza i flashback. Ritorna, adesso, il suicidio dell’Ingegnere. E’ quell’ora che precede il pranzo per alcuni, dove i silenzi dell’attimo del desinare, si fanno dilatati alle poche macchine che passano, sotto il sole freddo di Aprile. L’ingegnere deve tornare a casa. Non lo fa. Va a trovare la zia. Di quelle zie che quando sei piccolo ti fanno trovare le caramelle che sanno di armadio. Saluta la zia. La zia va in bagno. L’ingegnere si affaccia la balcone. L’ingegnere si butta dal balcone, frantumandosi sull’asfalto. Il momento vuoto dell’attimo del volo è uguale a tutti. E’ simile al risveglio da un sonno profondo. E’ il momento che ho immaginato, quando rivedo l’eterno incidente stradale o la frase di ogni mattina: “ ho preso la pistola e...”. Così ho creduto al litigio, alla contesa durante quell’attimo. Ma chi gridava ? Chi litigava? Il cervello urlava l’imprevisto al corpo cadente o altro al di fuori di me?

mercoledì 4 marzo 2009

Sutura


Si discute della mia vicenda, tra i parenti, ammucchiati nel corridoio. Pensano al mio risveglio, già avvenuto. Cosa sarebbe stato della mia famiglia, se fossi morto...Nei bisbiglii da anticamera di cartomanti, le mature cugine di vecchie prozie, azzardano l’ipotesi di un nulla al cubo, sui futuri dei miei figli eccetera. So cosa avrebbe potuto essere la vita dei miei cari, senza di me: un’altra vita. Mia madre, perse la propria, mio nonno si risposò, generando un’altra figlia, autrice di una nuova vita, nuove deviazioni nelle vite dei suoi cari e nuovi posti occupati da vite scomparse. La sutura punge. Si Svegli il taglio trasversale sapiente, una seppia ripiena, il mio addome, cuciture rossastre e gonfie, segnano la pancia. Questo non si può sostituire. Il mio organo meno utile è andato via e sento il vuoto della sua assenza. Non ci saranno altre milze a consolare le anse del mio ventre offeso. Ride il Dio. Si è ripreso il mio organo. Lo aggiusterà per darlo a qualche nuovo sfigato, che nascerà con una milza difettosa. Un altro uomo, pieno di dolori per quell’organo che lo fa rigirare nel letto la notte e lo fa stare in qualche clinica a benedire dialisi o insuline. Bussa l’infermiera dal bel culo, ma non mi si alza più. Dove lo trovo il sangue per il cazzo? Dovrò fare trasfusioni per scopare.

venerdì 27 febbraio 2009

Sangue


C’e l’accumulo sanguinoso. L’emorragia lenta come un fungo cortinario, mortale dopo giorni dall’assunzione, arriva fino all’attenzione dei camici bianchi, in attesa delle ferie estive. Se ne accorge il mio addome, gonfio, dolorante, come una sacca di vipere contorte. Il respiro si mozza alla ricerca dell’aria chiusa della stanza. Polmoni condotti ad apnee non volute. Perde, la mia milza, il liquido prezioso: Ricordo il caldo dietro la testa, sull’asfalto, ad arrossare le linee spartitraffico. Sono tanti, intorno a me. Stanotte ho avuto la prima crisi. Di nuovo, nello spasmo dell’oscura insonnia, si è alzata l’ala che avevo afferrato e stretto il primo giorno. Ho sentito il suo leggero alito sul mio petto. Stringevo con la mano, un polso, una caviglia. La cosa tentava di sfuggirmi. Qualcuno ha suonato il campanello. Ero riverso a terra, raggomitolato, come un coniglio, colpito alla testa dal fattore, in procinto di un salmì. Mi è spettato questo dolore, questa sorpresa di nuovi mali, a sconfessare la forza del mio corpo. Cerco di capire il Dio avverso che si diverte, come un aguzzino argentino, a rinnovare torture sul desaparecido, ormai certo che il peggio sia passato. Il Dio. Quello che fa accadere le cose, affinchè gli uomini possano porvi rimedio. Quello del dolore, che fa amare la semplicità delle quieti. Perchè queste fitte senza scopo? Possiamo apprezzare la normalità, senza la coscienza della sofferenza? Più, è grande la sofferenza, minori saranno le nostre aspettative del benessere quotidiano. Il Dio scherza con gli uomini oppure lascia mano libera al suo avverso. E’ la volontà di Dio o è una sua momentanea assenza? Le finestre del dolore si aprono, sul Dio che gira un attimo la testa, che si china ad allacciarsi una scarpa, sul Dio che sbadiglia al volante o sul Dio che chiude gli occhi, starnutendo. Come può l’avverso, essere presente sempre, essere la distrazione del perfetto, onnipresente? L’avverso è dentro l’urlo di dolore dallo stomaco, di un femore spezzato nelle carni. Un occhio odioso si rivolge in alto,
al rimprovero bestiale.
E’ l’urlo dell’avverso, a richiamare il Dio
sulla sua piccola sconfitta.
Sono stretto, nella morsa di un forcipe d’acciaio.
Odore di anestetico, la luce forte della lampada operatoria.
Mi toglieranno la milza.
Respiro nella maschera. Ora il nulla.

lunedì 23 febbraio 2009

The butcher nun


Entrò velocemente nella sala parto. Sotto la veste da infermiera pendevano i lembi della tunica monacale. Un coltello di quelli da macellaio affondò con un grido nella pancia della partoriente con una precisione tale da evitare di uccidere il bimbo che aveva la testa ormai fuori dalla vagina. I dottori indietreggiarono senza aver ancora realizzato l’accaduto. La suora appena estratta la lama, con rapidi fendenti, recise le carotidi di tutti i presenti. Dal ventre della madre uscivano sangue e liquido, gli occhi strabuzzati, ghiacciati tra il dolore del parto e l’orrida sorpresa della morte. In un attimo fu reciso il cordone ombelicale e la suora uscì da quel bagno sanguinario con il bambino avvolto dentro un panno. Prima che la guardia al piano potesse intervenire, aveva già preso la prima porta che dava al sotterraneo delle caldaie. Il commissario fu svegliato dalla solita telefonata. Erano mesi che quella cantilena andava avanti. Un Ospedale, una clinica, visitate dal killer. Non riusciva a capire come fosse possibile per l’assassino entrare così facilmente dentro la sala parto per compiere quelle strage con rapimento. Le indagini avevano dato pochi risultati. C’erano dei collegamenti strani in quei crimini. Tutte le coppie, prima del parto, avevano chiesto assistenza spirituale presso un vecchio convento di suore, al centro della città, un convento nel quale operavano ancora poche e vecchie donne. Il convento era una grigia ed immensa costruzione che partiva occupava un intero isolato. Era una di quelle zone talmente centrali, da risultare, paradossalmente tanto anonime. Il Commissario suonò alla portineria. Una vecchia suora, con un bastone e lo sguardo acido gli aprì, non senza prima aver fatto un terzo grado al poliziotto. - E’ con suor Michelina che deve parlare- disse la vecchia. Gli venne incontro una suora di mezza età, alta, dal viso tagliente e dagli occhi di un verde profondo ed inquietante. Andarono nel suo ufficio. Il commissario chiese notizie sulle coppie, vittime degli omicidi e dei rapimenti. La suora diede informazioni tanto precise da essere quasi false. Il commissario aveva notato una musica di sottofondo eccessivamente alta, tanto che si faceva fatica a parlare. Non aveva osato chiedere di abbassare il volume. Stava per accomiatarsi e aveva appena messo la mano sulla maniglia della porta, quando il brano cessò, ed il Commissario udì distintamente dei vagiti provenire dal fondo del corridoio. Venivano dalla cappellina del convento. Estrasse la pistola. La suora, senza dire una parola fece cenno di seguirla. Entrarono e si diressero dietro l’altare dove c’era una porticina sul muro. Ora i vagiti erano fortissimi. Il Commissario sbiancò . Vi era un seminterrato illuminato da tetre luci al neon. Lungo questo seminterrato vi erano decine di cullette nelle quali piangevano altrettanti bambini. - I genitori non sarebbero stati degni di crescere questi figli - disse la suora con tono pacato. - Era nostro dovere morale e cristiano, preservare queste creature di Dio dal peccato e dalla corruzione- Il Commissario tentò di girarsi di scatto. Fece appena in tempo a vedere il filo dell’ascia scendere sulla sua testa..

giovedì 19 febbraio 2009

Ftònon ton teòn


Ho visto sicuramente il motivo di tutto questo. Là dove non potè l’ignavia dei miei avi, riuscì l’avversa sorte, contro di me tapino. Nell’ultimo sonno, quando la luce malata del finestrone, mai lavato, della mia camera d’ospedale, taglia la notte, le palpebre frenano il giallo vivo della visione mattutina, nel policromo variare degli arancioni, degli azzurri roventi, dei verdi fastidiosi. Sembra di stare sotto il sole di luglio ad occhi chiusi. Questo velo acido, chiama i peggiori pensieri di sempre, che devono essere pensati subito, una medicina necessaria da prendere immediatamente, per togliersi la preoccupazione . Mio padre, dal tumore statico, combattuto con l’arma del suo male. L’uomo dei progetti incompiuti, appositamente per causare la propria ed altrui rovina. Dagli inizi di buona volontà, ma dalla conduzione disastrosa degli effetti. Provava piacere in quell’amabile lamento dell’autocommiserazione, quando, chi ti è caro, ti sorregge il volto a gettare lacrime sulla sorte. Indisponente come l’artista convinto dell’unicità dell’opera sua. Reticente con i cari, sbottonato con i passanti, fintamente amici di un giorno. Raramente vidi soldi uscire dal diretto guadagno del suo lavoro, spesso vidi mia madre garantire con firme, decine di cambiali. Fu rovina. Inevitabile, lenta. Una discesa che tutto trascina a valle. Cambiarono mestieri, usi, certezze, sorrisi. Ci piegammo alla vita nuova. Ero deciso a contrastare con il muscolo, un vento contrario, sabbioso, sferzante. L’ho fatto, fino a quando la sorte ha spezzato queste ossa, ricordandomi di seguire per bene, le orme di mio padre, che era passato lì da poco. Il terrore di riuscire ad essere come mio padre, mi spinge ad una rovina che non voglio. E più ho paura di essere uguale a lui, più divento lo specchio della sua storia. Risolvo tutto, sterminando la mia famiglia.

lunedì 16 febbraio 2009

Le Schegge del demonio


Qualcuno potrebbe pensare al segno divino. Quando la folla dei parenti queruli, assedia letti di degenti in apparente tranquillità, si scatenano le sequele di madonne ausiliatrici e trinità in appostamento contro progetti demoniaci. Arrivano gli amici che hanno studiato. Adesso mi trafigge il fianco, un dolore solido, di ematoma in espansione. Scende l’ematocrito, sotto il piglio attento del primario in visita serotina. Si aggiunge un dolore nuovo, del corpo che reagisce, che si sveglia, vergine da siffatti traumi. Altre fratture. Schegge di ossa, tenute strette dai muscoli del consumato podista. Vorrebbero, queste schegge sanguinose. scendere fino alle mie caviglie, come i resti dell’arrosto di una scampagnata, a bruciare, bianchi, tra le ceneri del falò, prima di andarsene. Ma eccoli gli amici, frequentatori di librerie d’essai. Non sono riusciti a trovare il loro Dio, quello uno e trino, nelle chiese vicino casa. Un Dio impegnativo, perchè presuppone l’abbandono dei vizi a loro tanto cari. Allora lo cercano nelle Indie, in Arabia, nei libri colorati di Buddha tascabili. Divinità sagge e terrene, da utilizzare, possibilmente a stomaco pieno, dopo un pranzo ed una bella canna. Mi costruiscono un kharma su misura, di quelli dove nulla e casuale più della casualità di una vita già scritta, dall’inevitabile destino. Poi ci sono quelli che hanno studiato il greco, tra ubris e colpe dei padri che ricadono sui figli. Preferisco il silenzio morfinoso che attutisce i sensi e soffoca l’udito su questa ciurma di sparatori di cagate. Secondo la gerontocrazia della famiglia, fatta di zie dal rosario d’osso di muflone e nonne occhialute, avrei decine di ceri da accendere su tutta la via Francigena. Chi mi infonde la presunzione che, pletore di santi si siano occupati di me in quel momento? Come può un uomo, essere pieno di questa boria antropocentrica, che lo fa sentire padrone motore del tempo? Quanti annunci mortuari ho letto, di gente, che pensava alla propria morte, come fine dei tempi! Adesso il centro del mondo è la mia anca, io sto a lato

venerdì 13 febbraio 2009

Vertebra


Noto la totale nullità delle ore. Non c’è quel tempo esterno, di chi cammina per strada o vive nelle case lontane da questa finestra. L’orologio è l’antidolorifico.
Nel cavo di questo marciume che impasta la mia bocca, tento parole di circostanza con l’infermiera. Ha un profumo sgradevole, che si mischia al forte odore della sua pelle sudata. Nervosa, le guance tirate, la messa in piega appena fatta. Non la scoperei assolutamente, nonostante il perverso erotismo di una infermiera sado, che ti sottopone ad enormi clisteri.
Ricordo, forse avevo tolto le tonsille, il risveglio dall’anestesia, avevo quattro anni. La stessa sensazione di claustrofobica impossibilità al movimento, stretto tra lenzuola tirate e bagnate di piscio. Arriva il prete. Il prete di ronda. Un cacciatore di debolezze. Un vigliacco procacciatore di conversioni, sotto il vincolo di moribondi senza più urla e depressi vecchietti senza famiglia, parcheggiati in lontane corsie.C’è una ricattatoria immagine di padre Pio, come garante dell’antiprivacy del dolore.
Chi soffre è vicino a Dio.
Chi sta al sesto piano, in rianimazione, è più vicino a Dio rispetto a quelli del quarto, in riabilitazione.
Il prete tenta un approccio sulla comunanza della sofferenza, con la croce.
Preferisco addentare la mia coscia di pollo,

mercoledì 11 febbraio 2009

Serial blow job


Le ragazze si fermarono davanti al bar. Faceva caldo. Erano intenzionate a rimorchiare. Entrarono. Il bar era affollato. Si diressero con aria sicura verso il bancone. Alcuni uomini, si girarono per curiosità e le guardarono. Avevano un’aria sicura le ragazze, come se conoscessero già la strada. I loro occhi malcelavano l’istinto della caccia. Erano lì per quello. Una volta al bancone, ordinarono due birre, quindi si misero di spalle, appoggiando la schiena sul bordo del lungo pianale di legno. Le gambe penzolavano dai sedili alti. Qualcuno , passando davanti a loro, notò le calze.. Quelle calze che le donne qualsiasi non mettono. Le calze di quelle che vogliono farsi vedere le gambe...Le ragazze trovarono l’uomo. Era un tipo abbastanza alto, corpulento, sulla quarantina. Stava giocando a biliardo con altri due tipi. Ridevano forte ed avevano tutta l’aria di essere quei tipi di maschi che non hanno bisogno di tante parole per starci, con delle ragazze come loro. L’uomo notò che le due lo stavano guardando. Dopo qualche minuto, con una scusa, terminò la partita e si diresse verso il bancone, vicino alle due. Le ragazze si passarono un’occhiata, veloci e feroci, poi gli sorrisero, mentre l’uomo chiedeva un drink al barista. Non fu difficile attaccare discorso. Quei discorsi banali che servono a formalizzare quello che li seguirà. Uscirono dal locale. L’uomo azzardò un gesto di confidenza, abbracciandole entrambe. Le ragazze non si opposero. Le cose andavano più veloci del previsto. Mentre una guidava, l’uomo era impegnato sul sedile posteriore con l’altra. L’auto si diresse verso la periferia. La radio a tutto volume ed i finestrini aperti. C’era un vecchio disco di Sly & the Family Stone nell’aria: «Turn me loose», mentre il tipo aveva i pantaloni quasi completamente scesi. All’improvviso la macchina si fermò in un parcheggio deserto vicino l’autostrada. L’uomo e la ragazza scesero, sempre avvinghiati. L’uomo sentì il fresco leggero della notte sui glutei, mentre la donna si inginocchiava davanti a lui, scendendogli anche gli slip. Iniziò a fargli un pompino. Lui gemeva al movimento ritmico della testa della ragazza. la teneva, stringendola per i capelli ed accompagnandola a sè, ogni volta che il piacere si faceva più intenso. Era al culmine tanto che non si accorse di qualcosa di freddo poggiato sulla sua tempia. Capì tutto solo nel momento in cui venne. Riuscì a sentire lo scatto del grilletto, poi il buio. Il quel momento, la ragazza in ginocchio aveva scostato la testa dal suo cazzo, giusto in tempo per essere investita in pieno viso da un fiotto di sperma, sangue e pezzi di cranio. L’uomo aveva l’unico occhio rimasto sbarrato e cadde all’indietro, con un tonfo sordo e sabbioso. L’altra ragazza, con la pistola fumante, stretta ancora in mano, guardò l’uomo riverso a terra, con sufficienza. Le due risalirono in macchina. Era tardi, dovevano rientrare in convento.

martedì 10 febbraio 2009

La vite


Il Dottore arriva. E’ lui, adesso, il mio Dio. Devo ancora decidere se odiarlo o meno.Guarda la cartella clinica e le foto della Tac, si rende conto che le foto sono al contrario e gira la cartella. E se un Dio, creandomi, avesse sbagliato il verso delle foto? Non posso andare di corpo da dieci giorni. Il mio intestino si è stretto in una morsa di calcio e petti di pollo da allevamento. Si diffondono nella stanza, indecifrabili, i fumi delle mie contrazioni. Non odio il Dottore, lo trovo, sinceramente, inutile. Ho iniziato una cura. La vite che cigola, girando nella mia gamba, taglia il silenzio di questi risvegli dalla fronte sudata. C’e’ un forte odore di mercurocromo su sangue stantio. Minestre. Mari di minestre calde sotto il naso, ancora tappato dalla polvere della calce. Il mio dottore inutile, dalla voce compressa e monotonale, non tocca più la mia vena autostrada sul dorso della mano. Si limita ad iniettare ,nel tubo della flebo, un trasparente antidolorifico. Scende, il liquido. Il calore prende il braccio, mi stringe il petto, mi taglia il fiato. Ho lasciato l’orologio sul comodino.

sabato 7 febbraio 2009

Sognomorfina numero 2


Il narcotico, loto omerico, scende, con la buonanotte del benevolo infermiere addetto alla mia flebo. Ho ancora le scarpe da ginnastica, nella nascita di un sognoricordo, provocato volutamente. Non è una galleria qualsiasi. La discesa ghiaiosa. Sto correndo. La galleria entra nella montagna. Corro da ore. A monte vedo avvicinarsi l’entrata rotonda ed irregolare dell’oscuro budello. Sotto le scarpe, il rumore dei sassi che grattano metronomici la gomma delle suole. E’ un rumore piacevole, si accompagna al ritmo del fiato spezzato, del cuore avvezzo al mio passo. Entro nell’oscurità. Mi accoglie il calmo umido di una sottile aria di conforto. Adesso procedo nella penombra di un ossigeno rinfrancante. Sto bene, non sono mai stato così bene. E’ il passo del podista ritmato, affaticato, felice, dalla cadenza acquistata, ad libitum. La galleria non è molto lunga. Vedo una fine ed una luce. Non è la galleria, ritorno, di chi è quasi morto, dei risvegliati dal coma. Alla fine della galleria si apre un largo pozzo, di fumi sulfurei e caldi. Sembra un bagno termale. Sto sul bordo di questo catino di mota. Immerse nell’acqua, donne in cerchio, fianchi e seni generosi, si ricoprono di questa fanghiglia balsamica. Scendo in acqua. Non ostile alle loro grazie, mi lascio ricoprire, di questo liquido caldo e brunito. Anche se fumoso, il fango è fresco, e dona sollievo alle mie stanche membra di corridore. Il sonno leggero fa sparire la visione di soccorso... Apro gli occhi.
La bocca dura, acida, di poltiglia non digerita.
Mia madre mi sta lavando il viso con una spugna umida.
Riesco a chiedere un caffè, purchè sia amaro, a detergere l’incubo orale.

venerdì 6 febbraio 2009

Odio o del quarto giorno coi tiranti


Dicevo di quest’odio. Odio, quindi credo. Credo, perchè odio. Odio il dio e lo rendo vero grazie a questo odiare dal profondo. Odio è la più grande forma di ammissione dell’esistenza di Dio. Un ateo possiede una sola faccia di questa medaglia: può essere libero dal Dio e le sue regole, non ammettendone la sua esistenza, ma non può veramente indirizzare il suo odio verso il soggetto delle sue disgrazie, perchè il soggetto non esiste. L’ateo odiante, è un essere coraggioso, che non può giustificare le avversità della vita, addossandone la causa ad un essere infinitamente avverso. Un ateo in pace con se stesso e gli altri, è l’essere più fortunato sulla terra. Il credente è un essere pigro, delega la propria vita come ad un’assemblea di condominio alla quale non può partecipare. Quando il credente sbaglia, non se la prende con il suo Dio ma gli chiede scusa. Una croce, un volto, una statua di gesso come questo braccio fasciato, murato, al quale chiedo scusa. Il credente è debole, pecca ,sbaglia, si pente, pecca di nuovo, si ripente. Se un credente avesse veramente coerenza e riconoscesse l’impossibilità di spezzare questo circolo, prenderebbe la saggia decisione di suicidarsi. Ma qui, interviene la sua stessa religione, a salvarlo: suicidarsi è peccato. Si può peccare e pentirsi, ma non ci si può pentire del peccato di suicidio. Per chi odia in genere e quindi è il vero credente, suicidarsi è arrendersi a Dio ed è quindi l’unico atto di fede.

mercoledì 4 febbraio 2009

Sognomorfina numero 1


Caccerei dal trono un Buddha, inerte, insensibile, assiso nel vuoto del suo Nirvana senza dolore. Cerco, la divinità più indifesa al mio odio di pietra, che spaccasse la teca di vetro dei fedeli, inginocchiati in calde serate di giugno. Passa l’infermiera. E’ l’ora di chiudere il sipario del mio astio, legato da bende, teso da trazioni, sul letto di corsia. L’occhio cede, alla flebo del narcotico, si chiude alla nuova visione, che mi accompagna da giorni, nel sonno artificioso. L’ago che sento, entrare nella caviglia, unico spazio libero alla luce chirurgica, ora si trasforma: sono cento, mille aghi. Mi trovo immerso nel fondo di questa vasca di grotta, tra rocce e spiragli di luce. Devo salire in superficie. Mi aiuto, aprendo gli occhi per un appiglio migliore ai miei calcagni. Sulle pareti della vasca, che supera di poco la mia altezza, mucchi di membrane vaginee, sembrano, come grappoli di uova di seppia, respirare, e succhiare la torbida acqua vicina. Al centro di ogni membrana, infissi, degli aghi. Si scoprono ritmicamente all’apertura di queste valve gommose e inumane. Cerco di salire, ponendo i piedi tra una membrana ed un’altra, ma sono vicinissime tra loro, e tra queste, ancora più piccole membrane con aghi più piccoli. I miei piedi, ad ogni passo, vengono bucati, martoriati. Fiotti di sangue, il mio, sembrano far aumentare il ritmo vorticoso delle contrazioni, di questi esseri famelici. Più in alto, le membrane più grandi, non hanno aghi, ma lunghe lame, dal filo di rasoio. Macellano i miei piedi, le mie mani, che si aggrappano disperate a queste gommose, entità carnivore. Mi spingo sul bordo della vasca...

lunedì 2 febbraio 2009

La vicina


La vicina aveva un culo che tendeva i pantaloni come un pallone da calcio. E poi, vestiva così strano. Quei piercing, anche sull’ombelico sempre in vista e quel tatuaggio... Le partiva di traverso sulla pancia e le andava a finire sotto la cintura, in direzione del pube. Tommaso immaginava dove si fermava quella strana scritta e avrebbe tanto desiderato leggerla ad alta voce. La ragazza era una tossica. Nessuno avrebbe potuto sospettarlo, data la floridezza del soggetto. Nessuno sapeva, neanche i suoi, che avesse la Malattia. Solo Tommaso lo sapeva, ma lo nascondeva sotto quell’ aspetto segaligno e freddo. Un giorno, era venuta per un esame, nel laboratorio in cui Tommaso lavorava e lui, da curioso, aveva voluto indagare sulla ragazza. Un po' come fanno i fotografi, quando qualcuno gli porta da sviluppare un rullino. Si mettono a sbirciare le fotografie e invadono le vite degli altri. Così, sapendo, le passava davanti, salutandola freddamente, mantenendo quell’aria scandalizzata, perfetta per un mediocre come lui. Ma se lei avesse conosciuto veramente Tommaso, sarebbe scappata in casa, serrando a porta due mandate…l Tommaso era un satanista. Di quelli peggiori. Peggiori come possono essere quelli che nella vita comune, sono i più anonimi ed i più inquadrati. La sua passione per il satanismo acido era passata ed ora si stava spingendo verso un gioco pericoloso, senza ritorno. Avevano iniziato con le orge, lui e gli altri. Ogni tanto sgozzavano qualche gallina. Ma più che drogarsi e praticare sodomia, non andavano. Poi era arrivato il Maestro. Avevano raddoppiato l’intensità degli incontri e c’ era scappato il primo morto. Una puttana. Prelevata con la scusa di un servizietto, narcotizzata e portata sul luogo del Sabba in stato di semincoscienza. Il fatto è che la troia aveva pensato bene di svegliarsi durante la violenza di gruppo e il Maestro le aveva tappato la bocca con uno straccio. Aveva esagerato. Era morta soffocata. Tutti erano colpevoli. Il Maestro aveva proferito minacce terribili se qualcuno avesse parlato. In ogni caso fu semplice liberarsi del corpo. C’ era una conceria vicino e quelle vasche piene di acido svolsero un bel lavoro. Eliminato l’oggetto del delitto, Tommaso eliminò il crimine commesso dalla sua coscienza, dato che ne avesse ancora una. Così, sazio di sparizioni, non si accorse che la vicina non si vedeva da qualche giorno. Ma era sabato. La sera dell’incontro. Erano in circolo, attorno all’altare, dove giaceva la vittima. Tommaso non riusciva a distinguere bene intorno a se. Aveva preso una dose eccessiva e non aveva gli occhiali, quei grossi, stupidi occhiali a culo di bottiglia. In un attimo furono tutti addosso alla vittima. Nella nebbia della sua trance, Tommaso riuscì a capire che la vittima era una donna, come al solito. Ma il fatto strano è che fosse consenziente. Tommaso riuscì a prenderla da dietro. La sodomizzò. Spingeva più delle altre volte, tanto che sentì qualcosa di suo lacerarsi. Come una puntura alla base del suo membro. La teneva da dietro , tirandola per le spalle. Davanti alla donna due uomini si facevano masturbare. Tommaso godeva. Era un misto tra l’effetto della droga e l’orgasmo. Sentiva solo il freddo marmo dell’altare, premere sulle sue ginocchia. Venne e istintivamente nella penombra, girò la donna incappucciata verso di se. L’unica cosa che riuscì a leggere, prima di ficcarsi il coltello in gola, fu la fine di quel tatuaggio sul pube...

domenica 1 febbraio 2009

Vetro


Nel silenzio liquido, della strana morfina, dallo stomaco un nervo fino dentro al cervello. Il nervo di arrotola, come un budello di corda, tira giù le visioni dall’alto di questo baratro, dai contorni informi, incerti. Ora è un velo di sabbia, ora un mano dal palmo aperto, che scende come un manto, mi arriva addosso, mi copre gli occhi...la mano di un dio, un demone, una morte pagana , malevola o pietosa. Sul palmo della mano una stigmate blasfema, risanata, è il baratro di prima.. Un orifizio cicatrizzato al centro delle dita, scende ,scende...Mi sveglio...mia madre accanto. Odio. Mi sveglio odiando. Sento lo strisciare vetroso dei denti, serrando le mascelle. Il pensiero dell’odio, si realizza nella tensione muscolare, dell’avambraccio che ordina al pugno di stringersi e tremare. Ma sono ingessato. Il mio arto, racchiuso in una prigione d’intonaco, grida l’inane gesto di stizza repressa. L’occhio rivolto verso il soffitto, scoperchia il tetto, come a trovare un cielo contro il quale urlare l’abominio al Dio, senza faccia. I capelli, i miei capelli! Un groviglio di polvere e sangue raffermo, si riscalda sotto la nuca ferita, nel cuscino dietro la testa da giorni. Potrei odiare il Dio crocifisso, dandogli questa gamba dolente, questo fianco annerito, intriso di medicamenti inutili

sabato 31 gennaio 2009

L'ostia



...Il parroco entrò in canonica. Era tardi. Le campane della messa della sera erano già suonate. Qualche vecchietta si era sistemata tra i banchi: Don Tarcisio cercò il fazzoletto in tasca. Lo teneva piegato bene nei pantaloni sotto la tonaca. Prese il fazzoletto ed iniziò ad asciugarsi il sudore sotto il naso. Era una parte del corpo che gli sudava tantissimo. Spesso gli succedeva quando si sentiva a disagio o quando la tonaca invernale iniziava ad essere troppo calda per la stagione primaverile. Ma ora non sudava per questo motivo. Luca , il chierichetto gli stava di spalle vicino al tavolo al centro della stanza. Preparava le cose per la comunione. Erano finite le ostie e Luca era indaffarato con il sacchetto del fornaio. Il ragazzino, da dietro aveva un taglio di capelli corto, che gli scopriva la nuca leggera e rosea. I capelli aumentavano fino ad un ciuffo che da quella visuale si alzava ribelle, condizionato da due orecchie leggermente a sventola. Luca non si accorse di quello che succedeva alle sue spalle. Sentì una spinta improvvisa. Finì contro il tavolo e fu costretto ad adagiarsi con la pancia sul piano di legno. Non fece in tempo a gridare perchè il parrocco gli ingozzò il fazzoletto bagnato del suo sudore quasi fin dentro la gola. Luca riusciva ad emettere solo urla strozzate e rabbiose. Il parrocco lo teneva stretto e gli alzò le vesti con velocità. Poi Luca sentì le mutande strappate con forza. Un attimo di pausa. All’improvviso, un dolore acuto e lancinante lo piegò in due come un crampo alla base dei glutei. Fu allora che Don Tarcisio sodomizzò Luca. Da quella posizione, il chierichetto tentò di raggiungere con le mani il bordo opposto del tavolo. Scosso da movimenti ritmici e veloci, sentiva il suo sedere addormentarsi come in una ferita appena aperta. Ora il parrocco gli gravava sulla schiena e il suo alito gli arrivava in un orecchio. Ansimava e minacciava il ragazzino di stare fermo. Luca si era arreso ora. Piangeva con un lamento che usciva fioco e continuo dal fazzoletto che aveva nella bocca. Il parroco emise un grugnito ed uno sbuffo strozzato e si accasciò sul corpo di Luca...Alcuni minuti dopo Don Tarcisio, sull’altare, alzò al cielo un’ostia, una di quelle fresche, appena portate dal fornaio...

Fall from grace


Sono fermo sul punto del non ritorno. Le vene si dilatano ai liquidi noti dell’infermiere. E’ assoluto dolore o può andarci vicino. Come si fa dichiarare il proprio grado di sopportazione? Si aprono, nell’appiccicume umido e polveroso delle palpebre, alcune distese prefabbricate da film nella mia memoria. Ora il sentore amaro, proviene dal fondo della gola, saturo di fiele e fumi analgesici. Tutto tira, meno quello che dovrebbe tirare, tutto non gira, perchè la fitta è statica all’interno del midollo di questa gamba. Come quando, saliti in cima ad un torre, ci affacciamo da un suo merlo, per rabbrividire dell’orrido e del panorama, sentiamo fuggire un uccello nascosto nei buchi delle pietre, di fianco alla nostra veduta, così sento il battere pieno di quest’ala vicino. Allungo il braccio, unico superstite, per afferrare bramoso questo frutto sonoro. La cosa viene atterrata al mio fianco. Svengo...

venerdì 30 gennaio 2009

La Chiamata ( the call)

Ti ho chiamato.
Ho atteso il momento del tuo reclinare il capo verso il buio di terre desolate, dei regni della fame.
Hai guardato indifferente ai desideri della tua
creatura ripudiata.
Esci dal guscio del tuo muco appiccicoso!
Feto innominabile di malignità!

Ti ho donato il regno che ti appartiene per diritto, affinchè lasciassi la pace alla creatura mia diletta.
Mi hai rubato ciò che maggiormente lo delizia.
E’ il frutto perverso della tua distrazione fatale. Hai chiuso le tue palpebre per l’attimo della mia vigile rapacità.

Ho dato ai mortali ciò che lasciasti perso nel tuo negare la terra.
Non conosco il contrarsi di viscere, il serrare di una mano. Ciò non mi appartiene. E’ il mio dono, donato e a me non dato.
Inutile assoluto, posso farti cadere come tu facesti con me a suo tempo. Hai creato un regno di vanità, di menzogne divine e dolori senza premi.
Sento il tuo alito mefitico sulla mia fronte diafana, maledetto mostro di energia vitale! Non ti avvicinare! Hai sembianze a me già note. Essere deforme! Violentasti la natura, strumento del mio volere ai tuoi esecrabili comandi!
Mi aspettavi così...l’alone liquido di questo specchio ermafrodito,lo stesso di te carnale
Amo di te, imperfezione, la bestia, figlia del mio distrarmi...Ci sei, ora.No! Non posso amare, ma devo, la mia innata natura lo impone.
Esco. Il vincolo dagli aliti degli abissi è sciolto. Arriva luce.
Tu vedi ciò che io vedere non posso! Essere abietto, ti sia concesso il godimento della mia emanazione perpetua!
Ora sei solo una lampada di bettola e postribolo. La tua luce sotto il tuo sole, è disgustosa come la mediocrità. Non sei capace di ridurre l’essere tuo senza limiti.
Non fermarti! Ti concedo l’occasione..di donarmi un corpo
Tu chiedi a me!? Il trono tuo vacilla e si incrina, come un tempio pagano! Lo senti il rumore dalle immensità di questo sudario di fuliggine?
Ti ingoierò come un maelstrom sotto la barca di un vecchio baleniere. Vomiterò la tua anima pulita. Non sei nulla. Sei l’escremento del mio giorno di noia.
Essere della sconfitta! Possiedo i tuoi figli, caduti sulla terra come croste di un girovago lebbroso. Il tuo scendere è inutile, su ciò che non conosci.
Taci ed apri le tue viscide mucose! Fammi esplorare il seme della tua bestia immonda. Secerni i segreti delle tue sacche verminee. Fammi bagnare le dita nella corruzione immane del tuo sesso!
Sono vero, osserva ciò che hai odiato! Calpesto il mondo dai millenni della tua memoria. Sono aduso alle pratiche dell’abominio. Strada di vene e fluidi corre in gravità. Gonfia, arrossa, rende turgide le estremità della mia anima pesante.
Hai usurpato le curve degli amori. Hai svelato gli amplessi vergognosi, le sodomie celesti. i coiti lancinanti, le polluzioni odoranti di morte.
Sono il maestro di ciò che imparai da te.
Guarda adesso il mio viso informe di voluttà inesplose
Avvìcinati... Cerchio di buio intorno, trasforma in mio nulla in ossa bianche e nervi doloranti
Ho paura, sei il me che abbandonai la notte della caduta eterna
Non temere !Eccoti il respiro che mi lasciasti, lo sperma della tua vanità comanda alla bocca uno spasmo...più vicino
Maledetto! Non posso amare il sangue come il fiele della croce tra le mie gambe! Lo sento scorrere adesso!
Corri, corri! Trasforma il fuoco dietro la mia schiena. Sono arrivato dall’abisso che bendava i miei occhi, le braccia, sotto questa luce malata. Ti ho cercato, sorriso di lama, sembravi l’unica, Le notti che ti ho creato, hanno chiuso i tuoi pensieri sull’arida distesa dei nostri corpi inchiodati a mordere vento. La vedi la mano tesa. E’ vera. Sono vere queste spalle sulle quali lasci lacrime di cielo.
Nulla possono le mie mani vergini sui rantoli delle tue squame ab aeterno !
Odoravo di profondità, di fosso notturno. Orrido di topi e ragni, nelle pieghe sordide. Succhia questo tanfo mortale. Avvicinati, toccami. Tocca le estremità umide delle mie membra. Mordimi! Sono te blasfemo, lecca lo specchio del tuo bramare inane!
Non riesco! Non riesco! Dimmi! Con queste malìe rubasti i cuori dei sinceri, strizzati a scoppiare sangue sugli altari maledetti?
Meretrice di mille misericordie! Tu guardavi il mio bruciare , l’estasi di torturatori in preghiera. Raschia la ferita di questo sesso che strappasti perchè non lo donassi agli uomini.
Dov’è la tua lurida cavità? Voglio riprendere ciò che fu mio un tempo, a distruggerti per sempre!
Non credevo agli dei mortali. Sento la terra sotto i piedi, ma non c’è terra. Sento l’aria nei miei polmoni, sono mille aghi di ghiaccio nel mio petto. Respiro di te.
Maledico di me il senso che creai. Cosa ti ho donato! Gli occhi sfiorano le linee di questo carne senza carne
Ti vomiterò addosso la verità degli amanti assassini! Sei un cadavere meccanico. Chiuderò la tua speranza nella cripta del mio regno senza uscita!
Ora ho lasciato il vuoto del mio essere assoluto per cercare gli archi dei tuoi seni malati. Sento la tua densa saliva bagnare il solco dei miei glutei. Cos’è questo brivido sconosciuto? E’ simile all’ultimo lume di vita prima che il petto si gonfi, l’ultima volta, al vaneggiare dell’iride contratta, contro il volto della morte! Forse il tentativo del condannato allo stringersi della corda sotto il cranio, per guardare i propri piedi penzolare!
Addenta queste mie pallide strisce di carne e saprò! Liberami dal male oscuro di questa perfezione anemica di senso!
Mai! Soffri mille inferni senza i confini dei tuoi angeli di pietra! Non ti concederò le labbra della terra! Tu hai lasciato il dubbio dell’altro da te, nelle inermi creature dei tuoi parti falliti, hai gettato le prove del tuo ozio infinito , nelle paludi delle foreste senza sole, a cercare una riva salvifica! Hai abbandonato gli esseri che amasti in balìa di me, assetato di proseliti, in lunga schiera. Io ho tratto con forcipi acuminati, queste amebe, dai sacrari di sfacelo immane, dagli acquitrini ignoti. Vorresti conoscere ciò che hai loro negato e che io possedevo prima dei tempi, mio unico tesoro?!
Posso sentire la tua mano austera, guidare il tuo membro dentro me, eppure mi odi! Questo è, dunque, il segreto della vita? Così poca pena fu lo scordare le vie del cuore? Poca pena fu, per questo attimo di estasi bestiale, di pio dolore, come un uncino nel mio utero contratto a strappare rifugi di messia.
Lava la mia lingua turpe con l’umore sulfureo del tuo coito! Aspergimi di linfa come sperma del creato! Ora la desolazione dei tramonti inanimati si fa più lieve. Sei il balsamo ai tagli infetti delle mie mani, l’unguento delle piaghe forgiate dalla tua ira di tradito! Ti adoro punitrice! Ma non avrai il premio del corpo mortale! Che ciò ti rimanga come l’isola, lontana dalla rotta del naufrago! Piangi le mie stesse lacrime! Ne berrò la pozione, ridendo dei tuoi singhiozzi , troia d’altare!
Lo voglio! Il tuo tempo è finito! Farò a brandelli i tuoi putridi orifizi! Nulla più mi dividerà da te! Lo specchio è rotto! Lascia la tua carne, per un attimo!
Sento avvicinarsi l’ala del mattino, non posso nutrirmi del tuo amore malato. Ora i tuoi spazi sono vuoti, ma io sono qui! Maledetta bestia divina ! Mi chiudi l’unica occasione della vendetta! Non posso raggiungere il tuo regno , per usurpare gli spiriti senza catene...allora ti scoperò! Inonderò i tuoi orifizi con Lo Stige spermatico. Ti farò attingere ai boccali del mio scroto malefico. Ti annienterò per questo istante con il fiato del mio orgasmo caprino. Ti soffocherò con fiotti del sangue terreno, come una vergine stuprata!
Fammi sentire! Sarcofago di vacuità immonda! Dammi i tuoi doni nefasti! Ora posso vedere la traccia della mia carne, di nuovo creata a mio piacere, per il mio piacere! Distruggi, ciò che io posso, da sempre. Rendi mute, le mia grida di voluttà. Serra la mia vagina con la tua verga balsamo degli ardenti!
Chiuderò per sempre non la tua natura, ma ciò che le sta contro. Non ti farò vedere il mio volto deformato dall’estasi della tortura anale! Sentirai le mie unghie incidere lettere blasfeme, sulla tua schiena sinuosa. Sentirai il mio alito venefico, nel tuo orecchio, gettare le invocazioni dell’abisso.
Ti sfonderò le terga con l’assalto delle mie schiere infami!
E tu non vedrai il mio volto, quando fingerò il dolore che tu ami! Saprò godere come un demone fallace! La tua illusione di vittoria punta al centro del mio culo! Avrai la tristezza di cavalcare un finto destriero, una invisibile armata, un ansimare, il tuo, contro il vento e la tempesta! Cercherai con le mani l’inutile appiglio al contarsi ritmico dei tuoi reni, al tuo sbuffare sordido di iena.
Non puoi fingere ciò che non ti è noto! Dolore! Quale parola uscì dal tuo ventre inesperto di piaceri! Voglio insegnarti gli spasimi della lussuria, senza amare. Il tuo utero cercherà l’appiglio del mio fallo, come la sanguisuga un corpo vivo, come il naufrago la superficie dell’ossigeno!
Adesso puoi farlo! Te lo concedo, antro di plebe immonda!
Se desideri, io vinco! Ebbene sappi, che questo era lo scopo mio. Perchè giammai ti donerò la verità del mondo! Gettami il tuo scettro oramai opaco!
Perdi!
Abdica, guardando l’Alto senza più nome , nè fortuna!
La mia vendetta si compia! Sei umano ormai!
Conoscerai, piaceri, voluttà e dolori e morte!
E tu conoscerai le beatitudini senza corpo. Lava la tua natura dal sangue dei millenni!
Sarai al mio trono assiso, nuovo celeste tiranno.
Sarai me redento. Sono io vittorioso, perchè ti salvo. Sei costretto al bene, tuo vecchio odio.
Divorami l’infinito!

Ti tengo Dio!Ora nessun baratro ci separa!