sabato 16 marzo 2019

Il compratore di vendemmie


La faccia di Menico sembrava rassegnata. Sulla fronte corrugata, brunita dal sole cocente di tutta un’estate passata a sfiancarsi nei campi, due linee palpitanti, le sue vene, pareva volessero scoppiargli, tanta era la rabbia per quel verdetto infame: “Non posso darvi più di cento lire al quintale”, sentenziò l’uomo che gli stava davanti. Aveva una mano allungata tra i grappoli che pendevano dal carretto e ne tastava la consistenza, spremendoli fino a far colare il succo per terra. Menico, le braccia conserte, si giro verso la moglie e le figlie che lo guardavano affrante sul limitare della vigna. La più piccolina, una cosetta magra e malata, fissò il padre con gli occhi pieni di lacrime come a dire: papà, abbiamo lavorato come bestie, che abbiamo fatto di male? Il contadino non osò tenere il loro sguardo e si girò verso il suo interlocutore, rassegnato a dover accettare quella cifra da fame: “ Va bene, sempre meglio che morire di fame”. Ciruzzo sfoggiò un sorriso di soddisfazione, misto alla consapevolezza che quella cifra da strozzino avrebbe potuto far moltiplicare i suoi guadagni, una volta che avesse portato quelle uve nelle cantine per la spremitura. Il compratore napoletano frequentava ormai da anni l’Abruzzo. Aveva iniziato ad acquistare vino all’ingrosso, andando in giro con il suo carretto. L’attività era andata bene e così Ciruzzo aveva potuto acquistare un camioncino cassonato con il quale aveva deciso di andare per vigne ad acquistare le uve, durante la vendemmia. Da fine agosto fino ad ottobre, si recava sotto le vigne e, dopo alcune trattative più o meno estenuanti, riusciva a persuadere i vignaioli o i conduttori del fondo, a ceder il frutto del loro lavoro, convincendoli del fatto che avrebbero ricavato molto di men o, se avessero voluto quelle uve da soli: “Voi al massimo ci riuscite a fare l’aceto da far bere agli ubriaconi nelle vostre osterie”. Ciruzzo era dotato di buona favella e ai cafoni della zona, pareva parlasse come un signore, uno che conosceva come vanno le cose del mondo. Erano tanti anni che faceva quel lavoro e spesso era riuscito a comprare a bassissimo prezzo, delle ottime vendemmie, ricavandone ottimi profitti. Viveva il resto dell’anno a Napoli, sperperando i denari nei postriboli della zona e nei giochi d’azzardo. Spesso ero riuscito a concupire le giovani lavoranti nei vigneti, mentre genitori e padroni vendemmiando. L’ultimo settembre si preannunciava particolarmente fortunato per la vendemmia e Ciruzzo, a secco di denari dopo le ultime gozzoviglie dell’estate, parti di nuovo alla volta dell’Abruzzo, assetato più che mai dalla voglia di prendere per la gola quei poveri bifolchi. Nutriva disprezzo per quella gente, sempre china a lavorare e sempre più povera, dove la ciurma dei figli era impegnata nel pascolo delle greggi e nella cura degli oliveti. Riteneva che non fossero degni di  trasformare in vino quelle splendide uve e che a loro fosse dato da Dio, solo il compito di far sì che non marcissero sulla pianta. Era arrivato sulla piana di Capestrano, una zona nuova per lui e della quale non conosceva chi avesse possedimenti degni di essere spolpati dalla sua avidità. Molti viandanti gli avevano parlato di questa conca, capace di produrre uve straordinarie, adatte per i vini da far bere ai signori del Vomero. In quella zona un solo proprietario possedeva la quasi totalità dei vigneti. Tutta la vallata sottostante il paese di Ofena era coperta da bassi filari dove meravigliosi grappoli riflettevano i raggi del cadente sole settembrino. Solo un piccolo vigneto confinante con il possedimento del signorotto, era di proprietà di Bastiano, un povero contadino che aveva come unica ricchezza una piccola fattoria  e quattro galline nel pollaio che permettevano la sopravvivenza a lui e alla sua famiglia. L’uomo aveva deciso già da tempo che avrebbe lasciato quel posto, per emigrare lontano, magari in Canada, dove un caro cugino lo aspettava per aprire un’impresa edile. “Qui c’è tanto lavoro ma con quello che guadagni si vive bene. Ci sono le scuole per tutti e la gente è accogliente”. Queste frasi Bastiano le trovava sul retro delle cartoline che il parente gli mandava ogni tanto. Si vedeva che faceva una bella vita, perché sulle cartoline c’erano le foto di posti meravigliosi che il cugino poteva visitare viaggiando, grazie ad una condizione economica agiata. Con questa lontana speranza nel cuore anche in quei giorni l’uomo stava chino a cogliere l’uva, quando sentì il rumore di un autocarro che si fermava lungo la strada. Continuò a lavorare e non si accorse dell’uomo panciuto che si avvicinava con passo sicuro alle sue spalle. “Uè, è tua questa vigna?” Bastiano si girò. Ciruzzo era in piedi davanti a lui. “ Sì, che volete?” rispose il contadino. “Vuoi fare un affare? Ti compro il raccolto” . Bastiano esitò. L’uomo che gli aveva fatto la proposta non gli piacque. Da subito. Il contadino non smise di lavorare e tuttavia in quel momento comprese che quel giorno avrebbe potuto cambiare la sua vita. “Vediamo, io sono il padrone di tutte le vigne che vedi e questa uva mi serve per fare il vino che vendo giù a Pescara”. Ciruzzo si sentì spiazzato ma insistette: “ Se ci mettiamo d’accordo, tu di andare a vendere il tuo vinello, non ci devi pensare più”. Bastiano si alzò. In quel momento il sole stava tramontando e poteva essere sicuro di parlare senza che altri avrebbero sentito le sue parole. Diresse il suo sguardo verso le immense tenute del suo confinante. Non c’era nessuno. La vendemmia, da loro, non era ancora iniziata e il fattore era ormai nella stalla a condurre le bestie a riposo. “Sei sicuro che sarai in grado di pagare subito tutta questa uva” disse il contadino indicando le terre del confinante. Ciruzzo era un commerciante navigato e, nonostante sperperasse quasi tutti i suoi denari nei vizi, tratteneva delle sostanziose cifre che gli permettevano di pagare i contadini delle prime vendemmie e tornare nelle sue zone per rivendere le uve. Il partenopeo estrasse dalla tasca dei pantaloni sdruciti un rotolone di banconote da mille lire. Bastiano trattenne a stento la sorpresa: avrebbero potuto essere almeno duecentomila lire! “Quando sei disposto a darmi al quintale?” Il contadino si ricompose, mostrando freddezza. “Novanta o cento lire, tanto di più la tua uva non vale” , disse Ciruzzo. “Centoventi o niente” rispose il vignaiolo. Ciruzzo sapeva che, da quel raccolto fantastico avrebbe guadagnato dieci volte tanto. Decise di adottare una tecnica che aveva provato con successo con altri bifolchi: “ Ti anticipo i soldi del raccolto, se rimaniamo a cento lire ma tu mi devi promettere che lavorerai giorno e notte”. Detto questo, levò il legaccio dal rotolo di banconote che spiegarono come una sindone in esposizione. Si leccò pollice e indice e, dopo aver dato uno sguardo largo a tutto il vigneto, contò diciotto banconote da mille, sbattendole sulla mano aperta di Bastiano. A conti fatti, i due si guardarono e, si strinsero la mano. “ Ti lascio il camion a bordo strada. Ci vediamo domani mattina per il primo carico.” Ciruzzo prese la bici dal cassone dell’autocarro e si diresse, sbuffando verso il paese dove, gli avevano detto, esisteva una locanda dalla quale si potevano osservare i vigneti anche la notte. Bastiano. Dopo che il compratore si fu allontanato, chiamò a se moglie e figli: “presto andate a casa e preparate le casse con tutte le nostre cose”. La moglie non comprese. “Sbrigati” grido l’uomo. Era calata la notte. Lungo le filari i figli del contadino iniziarono a sistemare le torce per illuminare il vigneto. Tirava un leggero vento quella sera e Ciruzzo, comodamente seduto al tavolo della locanda, guardava le fiammelle tremolare sotto la brezza notturna. Figure evanescenti si aggiravano tra i filari e il drappeggio delle loro vesti si muoveva alacremente nella foga della vendemmia. Il compratore era soddisfatto per che quello si prospettava come uno dei migliori affari della sua vita. Bevve senza ritegno tanto che, la mattina seguente, si svegliò relativamente tardi, con un forte mal di testa: “Maledetti cafoni, lo sapevo che il vostro vino era buono solo per uccidere le cimici”. Nella locanda trovo solo il vecchio oste. Ciruzzo inforcò la bicicletta e iniziò la sua discesa, preparandosi ad effettuare il viaggio con il primo caricò di uva. Arrivato in prossimità del vigneto dove aveva lasciato la famiglia di Bastiano a lavorare, capì che c’era qualcosa che non andava. Dov’era il camion? Sentiva sempre più assordante uno starnazzare di oche. La sua sorpresa si tramutò in disperazione quando, sceso dalla bici, si addentrò tra i filari che erano, stranamente, ancora carichi di uve non raccolte. Nei lunghi camminamenti tra le viti, erano tese delle corde che andavano da un capo all’altro del vigneto. Nelle corde correvano degli anelli ai quali erano legate, per i collo delle anatre ricoperte di stracci colorati. Queste anatre, in preda al panico per il fatto che fossero impossibilitate a fuggire, correvano su e giù, lungo la corda, per tutta la lunghezza del vigneto, starnazzando disperate. Ciruzzo, dalla finestra della locanda, nel buio della notte, le aveva scambiate per vendemmiatori. Iniziò ad imprecare prendendole a calci. Corse verso la grande masseria, in cerca del truffatore, brandendo un coltellaccio, con l’intenzione di vendicarsi. Sull’aia, i fattori del padrone dei vigneti che Bastiano aveva spacciato per suoi agli occhi del napoletano, vedendo arrivare quest’uomo armato, misero mano agli schioppi. “Ridammi i soldi Bastiano!” urlava Ciruzzo. La sua rabbia era incontenibile e avrebbe sicuramente scannato il primo che gli fosse passato a tiro se un colpo ben assestato del fattore più anziano non gli avesse trapassato la mano che teneva il coltello. Quella stessa sera, presso il porto di Napoli, una famiglia, lasciato l’autocarro in un piazzale distante, trascinava qualche cassa, piena di povere cose e un paio di valigie, sulla nave diretta in America.

sabato 9 marzo 2019

Uelando



Uelando era un uomo bellissimo. Non aveva un nome italiano. Il padre, infatti, molti anni prima, aveva trovato questo nome dentro un vecchio libro nella stiva della nave che lo riportava dagli Usa. Concezio, in gioventù, come molti meridionali, aveva provato a cercare fortuna oltre oceano. A New York, aveva fatto molti lavori. Non aveva conquistato nulla eccetto il cuore di una donna: Annette, una minuta ragazza irlandese, dagli occhi di un azzurro profondo. La giovane lavorava in una stireria e non aveva ottima salute. Si erano sposati in una piccola chiesetta, al centro della comunità d'immigrati italiani e lui, dopo averle tentate tutte, aveva deciso di tornare in Italia, pensando che l’aria fine del Gran Sasso avrebbe potuto migliorare la salute di Annette. Il viaggio sul piroscafo fu terribile, la giovane sposa era incinta e le sue condizioni si aggravarono ulteriormente. Fu durante i giorni di traversata che trovò per caso quel libro. Concezio non sapeva una parola d'inglese e la giovane sposa, tra un accesso di tosse e l’altro, gli traduceva alcune pagine. Il libro conteneva alcune saghe nordiche ed era riccamente illustrato. Tra tutti i racconti, Concezio fu colpito dalla figura di Weland, il fabbro degli dei, quello che forgiò Durlindana, la spada di Orlando. “Se mio figlio sarà un maschio, lo chiamerò Weland” diceva, rivolgendosi ad Annette. La moglie gli sorrideva teneramente sapendo, in cuor suo, che lei non avrebbe potuto veder suo figlio crescere. Riuscirono in tempo ad arrivare a Loreto. Annette spirò subito dopo il parto tenendo stretto il figlio sul suo grembo. Il piccolo fu chiamato Weland per volontà di Concezio.
Tra i parenti ci fu una sorta di rivolta generale, data anche dal fatto che era tradizione, a quei tempi, che i nuovi nati avessero lo stesso nome dei nonni o di qualche santo protettore. “ Chi jè ssu’ Ueland?” Predicava Nonno Zopito. Anche la nonna era contrariata e considerava la serie di circostanze sfortunate accadute durante la nascita del bimbo, come una sorta di maleficio. Una donna straniera, morta partorendo un figlio rosso come le chiome secche delle pannocchie, dagli occhi azzurri come un demone tentatore e con un nome così strano. Concezio non batteva ciglio ma dovette piegarsi all’ignoranza dell’Ufficiale dell’Anagrafe, il vecchio Gino, il quale, prossimo alla pensione, aveva con gli anni perduto l’udito. Non ci fu verso, nonostante Concezio provasse a scandire il nome ad alta voce, Gino capì fischi per fiaschi. Si alzarono alte le bestemmie quando il padre, una settimana dopo, andò a chiedere una copia dell’estratto di nascita: il nome del bimbo era destinato a rimanere per sempre “Uelando”. Così il piccolo crebbe tra la bottega di fabbro del padre e i vicoli di Loreto dove i suoi coetanei impararono a costruire mille giochi di parole sul suo nome. Nonostante questo pel di carota dagli occhi blu crescesse in altezza e forza, tuttavia provava una sorta di complesso di inferiorità rispetto agli altri ragazzi, forse a causa del fatto che, essendo orfano, vivesse con la nonna che mal lo sopportava. La vecchia non riusciva superare le sue superstizioni e trattava il nipote giusto il necessario per non fargli mancare cibo e vestiti puliti. Weland crebbe senza affetto, il padre non si rassegnava alla morte di Annette, aggrappandosi alla speranza che il figlio crescesse solo per poterlo aiutare nella fucina. Fu per questo che Concezio iniziò il ragazzo all’arte della coltelleria, costringendolo a stare in bottega per ore, sottraendolo ai giochi di strada. Weland guardava gli amici scorrazzare per il paese. Ogni tanto lo chiamavano scherzando: “Uè Lando, Papà ti ha messo sotto?”. All’inizio questa condizione parve dargli fastidio. In seguito, affinando le sue doti all’incudine, iniziò a provare un sottile piacere nel forgiare coltelli e lame. Con gli anni, divenne un uomo alto e vigoroso, il lavoro pesante gli aveva donato un fisico muscoloso e tonico, il tutto unito a dei capelli rosso fuoco che ora teneva lunghi legati con un laccio di cuoio. Su tutto, malamente nascosti dalle tracce di fuliggine sul suo viso, spiccavano due occhi di un azzurro accecante, profondi e ipnotizzanti. Il paese era piccolo, non era difficile che fosse notato, soprattutto dalle donne. Weland non si sottraeva agli sguardi delle fanciulle le quali, passavano davanti alla bottega ogni giorno. Spesso qualcuna, più audace, con la scusa di ritemperare qualche coltellaccio da cucina, si fermavano a parlare con lui. Il giovane fabbro non era un uomo di grande conversazione ma bastava un solo sguardo per accendere in quelle ragazze un desiderio irrefrenabile. Weland, forse alla ricerca della madre che non aveva mai avuto, si sentiva attratto dalle donne maritate anche più grandi di lui. Erano queste, in paese, un gran numero. Spesso da sole in casa tutto il giorno, perché i mariti lavoravano nei campi o pascolavano le greggi o addirittura emigrati in terre lontane, lasciando le consorti alla gestione della casa e all'educazione della prole. Weland ebbe la sua prima esperienza con una delle più graziose. Si recò da lei per ritirare alcune falci da affilare. Il marito della donna era nei campi e sarebbe rientrato solo a sera, giusto il tempo perché il fabbro potesse intrattenersi piacevolmente con la giovane. Altri incontri seguirono a questo. A lei, Weland, fece dono di un coltello gobbo, con il manico intagliato nell’ulivo. Sul manico una piccola scena di caccia, con un segugio che puntava la selvaggina. Il marito della donna, notò il coltello nella dispensa ma non si fece molte domande. Dopo qualche mese la donna rimase incinta ma la cosa sembrò normale dato che, a quei tempi, le famiglie erano numerose. Un sospetto velato colse l’uomo quando guardò il neonato per la prima volta: capelli rossi e occhi azzurri.  Molto strano per una famiglia di contadini dai capelli neri come il carbone. Weland non si fermò alla moglie del contadino. Iniziò ad intrecciare relazioni clandestine con molte donne del paese e delle contrade. Ad ogni donna, il fabbro regalava un coltello finemente intagliato, come pegno del suo amore e a ogni donna lasciava il ricordo tangibile di un figlio illegittimo, un bimbo o una bimba, dai capelli rossi e dagli occhi celesti. I mariti delle fedifraghe, distratti dalle incombenze nei pascoli o nei campi, i quali trovavano nel vino, l’unico momento di conforto alle loro fatiche, non avevano particolari motivi di diffidare delle consorti. Con gli anni una piccola comunità di ragazzini dai capelli rossi gironzolava per il paese. Weland era cosciente di ciò che aveva combinato, ma continuava imperterrito nella sua attività di seduttore. Le cose filarono lisce fino ad una fatidica fiera delle pecore, che si teneva in estate presso Campo Imperatore. Alcuni pastori di Loreto e dei paesi vicini avevano fatto salire le loro greggi, passando da Forca di Penne. Portavano anche i figlioli per insegnar loro il mestiere della pastorizia. Fu quando le pecore si furono radunato in gran numero sulla piana che i convenuti, arrivata sera, si riunirono davanti ai fuochi per mangiare, bere e concludere le compravendite del bestiame. Ogni pastore aveva accanto a se i propri figli. Giunta l’ora del pasto, gli uomini estrassero dalle sacche i formaggi di loro produzione per condividerli e avere dei pareri dagli altri circa la qualità degli erbaggi. Alla luce del grande falò, quattro pastori si avvicinarono tra loro per scambiarsi pezzi di pecorino. Tesero le mani nelle quali avevano i coltelli e sulla punta della lama il proprio formaggio. Stranamente i coltelli sembravano avere la stessa forma, la stessa lavorazione. All’inizio i pastori risero per la coincidenza. Antò di Penne esclamò: “ Mimmuccio, chi te lo ha fatto questo gobbo? E’ tale e quale al mio!” “ Lo avevo a casa nella dispensa, lo trovai qualche anno fa, me lo ricordo perché mia moglie era incinta di Roccuccio il mio secondogenito” A quelle parole, il figlio di Mimmo si alzò. Antò rimase allibito. Non era possibile: il ragazzo aveva capelli rossi e occhi azzurri, proprio come il suo Aligi che ora era seduto vicino al fuoco. Provò un brivido, quando realizzò che, in effetti, anche lui non si ricordava bene di come fosse capitato il suo coltello in casa. Una cosa la ricordava: lo aveva trovato nell’armadio della camera quando la moglie era incinta di Aligi. Guardarono gli altri due pastori i quali, erano rimasti impietriti ed ora si stavano girando verso i loro figli, due agili ragazzetti dai capelli rossi e dagli occhi celesti. Non dissero nulla. Sapevano benissimo che l’unico in grado di forgiare simili coltelli, in zona, avrebbe potuto essere solo Weland. Quella sera, i loro cuori si chiusero nella tenebra del tradimento subito. Mimmo era percorso da un fremito di rabbia che gli saliva dalla gola e gli rendeva la fiamma di quel fuoco insopportabile. Girò tra i commensali, osservando le mani di tutti coloro che avevano coltelli simili al suo. Ne scoprì altri due. Loro non avevano figli da iniziare al mestiere di pastori. La loro prole era composta di femmine che ora si trovavano giù in paese. Con la scusa di voler comprare delle pecore, fissò loro un appuntamento per parlare di affari, una volta tornati giù a valle. Una volta a casa, nessuno degli uomini mostrò alle proprie mogli di aver scoperto il loro adulterio. Tuttavia, nel loro sangue di pastori scorreva ormai il fiume dell’odio. Iniziarono a mostrare disaffezione per quei giovani figli che pur avevano creduto fossero carne della loro carne. Antò venne a Loreto, recandosi da Weland perché gli forgiasse dei forconi per il fieno. Lo guardò, mentre contrattava sul prezzo. Scrutava il colorito dei suoi lunghi capelli, le linee del volto, la chiarezza profonda degli occhi, cercando di negare una qualsiasi coincidenza su quanto accaduto nei giorni della fiera. La figura giovane era innegabilmente simile a quella del suo Aligi: stesse spalle, stessi zigomi. Gli sembrò di impazzire. Dopo alcuni giorni si riunirono per concertare la vendetta. Decisero di lasciar passare qualche mese e di consumare il delitto in un luogo dove potesse essere difficile accusarli di un crimine efferato. Weland aveva da qualche tempo, preso a girare tra feste, e mercati, per vendere i suoi coltelli e  affilare lame ma soprattutto, per consumare tresche amorose, lontano dal paese natio ormai terra bruciata. In inverno si spostava verso la costa spesso e volentieri, rimanendo fuori alcuni giorni con il suo carro. Mimmo studiò attentamente gli itinerari del fabbro, per scegliere un paese nel quale non avrebbero potuto riconoscere lui e i suoi complici. Non era stato freddo quel gennaio. Weland aveva fatto mercato a Pescara e ora si dirigeva ad Ortona, in occasione della festa di San Sebastiano. Il carretto cigolava lentamente lungo la salita della Fonte Peticcio, una strada che portava fino zona nord della cittadina, chiamata dagli abitanti lu’ frecavende. Il vecchio cimitero era posizionato proprio in quel punto, una sorta di affaccio panoramico sul mare. Weland rise cinicamente nel vedere le cappelle mortuarie e le lapidi posizionate come se i defunti avessero potuto godere della splendida vista. Non notò subito la donna seduta sul ciglio della strada. Quando si accorse di lei, la donna alzò lo sguardo. Era vestita di nero, con uno scialle che le copriva il capo. Dalla stoffa nera uscivano boccoli rossi, di un colore intenso e brillante sotto la luce del grigio sole invernale. Il giovane fabbro rimase di ghiaccio quando i suoi occhi sprofondarono in quelli della sconosciuta, anch’essi di un azzurro profondo ed inquietante. “Non avreste per caso un po’ d’acqua?”. La donna pareva essere molto affaticata. Weland le porse il fiasco che penzolava dal carro. “Sono venuta per la festa, perché mi hanno detto che accadrà una cosa terribile”. Il giovane la guardò come se si trattasse di una pazza “Siete sicuro di andare?” La viandante prese la mano del fabbro, fissando il suo volto, quasi lo supplicasse ma egli ritrasse subito la mano allontanandosi con il suo carro. Rimase colpito da quelle parole. Dopo poco metri si girò quasi volesse chiedere qualcosa a quella sconosciuta. Sul ciglio della strada non c’era più nessuno. Weland rimase colpito da quell’incontro ma la folla dei pellegrini accorsi in città per la festa lo rigettarono nel lavoro e negli affari. Anche i pastori erano arrivati in città e facevano di tutto per non essere notati, avendo indossato vestiti da contadini, dopo un bagno decente ed una rasatura approssimativa. Decisero di dividersi, per non dare nell’occhio, dandosi appuntamento a Porta Caldari con la promessa di studiare tutti i movimenti di Weland. Scese la sera e tutti i pellegrini iniziarono ad ammucchiarsi nella piazza antistante alla basilica di San Tommaso per il rito dei fuochi d’artificio in onore di San Sebastiano martire. Il fabbro era in mezzo alla folla, al seguito di una fanciulla di cui era divenuto cavaliere per una sera. I fuochi pirotecnici iniziarono. I pastori, i quali si erano posizionati ai lati della piazza, aspettavano un cenno di Antò per dar luogo al delitto. Weland stretto tra la gente, teneva per mano la fanciulla, Entrambi osservavano attoniti il crescendo dei fuochi colorati e dei boati di meraviglia della folla. All’acme delle esplosioni, un uomo grido tra la folla: “Al fuco, al fuoco! La casa va a fuoco!”. Scoppiò il panico. La folla impaurita spingeva, tentando di fuggire dalla piazza, mentre i fuochi continuavano senza sosta. Fu allora che i pastori si a tuffarono nella calca. Nel trambusto generale, Walden non si accorse di forti braccia che lo prendevano e lo portavano fuori dal mucchio di persone urlanti. Tutto terminò in pochi minuti. Nella piazza non c’era più nessuno. Al mattino, l’urlo di una lavandaia che scendeva alla Font’a mare per lavare lenzuola, svelò il corpo di un uomo penzolante sulla torre del Castello. Quando staccarono Weland dalla corda, sul suo corpo trovarono conficcati sei coltelli da pastore, con il manico finemente intagliato nell’ulivo. 

Brano "Loving you"  (Acoustic version) - Jonathan Wilson