Sogno i sogni della morte.
Inizio a contare i giorni e gli anni che mi separano dalla probabile fine dell’esistenza. Non è un calcolo racchiuso nel catabolismo della mia esistenza. Immagino quelli più vecchi di me, parenti amici dei miei parenti, conoscenti, gente del mio paese che conosco di vista. Provo a ricordarli quando avevano l’età che ho io adesso. Riesco a collegare i giorni nei quali li ho visti e nei quali ho visto, i loro cambiamenti. Stacco la spina del mio specchio nel bagno, la spina che mi fotografa il volto ogni mattina e calcolo i cambiamenti tramite salti temporali. Studio la ruga ai lati della bocca. Essa viene scavata dalle ore, giorno per giorno, ma io non ci faccio caso, apposta. Poi, all’improvviso, dopo mesi, la osservo con attenzione per notare l’accentuarsi del suo solco. Riesco a creare false malattie, morbi virtuali che possano intaccare improvvisamente il mio corpo fino a condurmi al decesso. Confronto il mio viso con quello di mio padre, di mia madre, alla mia età. Li vedo, io piccolo, adulti, anziani. Adesso vedo le figure immobili dei mie parenti, morti, nelle casse, rosario stretto nelle mani. Sono allungato nella bara e vedo sporgersi le mie due figlie a fissare il mio cadavere ed immaginare quello che sto immaginando adesso. Questo sogno, sempre più ossessionante, si alimenta da solo come un feedback, come un uragano sul Golfo del Messico, come una vite senza più giri. Non voglio vivere una esistenza senza il pensiero della morte. Mentre la mano destra si torce per dare gas alla mia moto, emerge ,improvvisa, la sensazione dell’incidente, il vuoto d’aria nell’attimo del disastro, l’occhio spalancato dell’orrida sorpresa, La scarica di adrenalina prima dello schianto. Ho già provato questa sensazione. E’ ebbrezza pura, è silenzio profondo, è inutile affannarsi, è il limite tra essere e non essere più, è confine prima del dolore finale.
Inizio a contare i giorni e gli anni che mi separano dalla probabile fine dell’esistenza. Non è un calcolo racchiuso nel catabolismo della mia esistenza. Immagino quelli più vecchi di me, parenti amici dei miei parenti, conoscenti, gente del mio paese che conosco di vista. Provo a ricordarli quando avevano l’età che ho io adesso. Riesco a collegare i giorni nei quali li ho visti e nei quali ho visto, i loro cambiamenti. Stacco la spina del mio specchio nel bagno, la spina che mi fotografa il volto ogni mattina e calcolo i cambiamenti tramite salti temporali. Studio la ruga ai lati della bocca. Essa viene scavata dalle ore, giorno per giorno, ma io non ci faccio caso, apposta. Poi, all’improvviso, dopo mesi, la osservo con attenzione per notare l’accentuarsi del suo solco. Riesco a creare false malattie, morbi virtuali che possano intaccare improvvisamente il mio corpo fino a condurmi al decesso. Confronto il mio viso con quello di mio padre, di mia madre, alla mia età. Li vedo, io piccolo, adulti, anziani. Adesso vedo le figure immobili dei mie parenti, morti, nelle casse, rosario stretto nelle mani. Sono allungato nella bara e vedo sporgersi le mie due figlie a fissare il mio cadavere ed immaginare quello che sto immaginando adesso. Questo sogno, sempre più ossessionante, si alimenta da solo come un feedback, come un uragano sul Golfo del Messico, come una vite senza più giri. Non voglio vivere una esistenza senza il pensiero della morte. Mentre la mano destra si torce per dare gas alla mia moto, emerge ,improvvisa, la sensazione dell’incidente, il vuoto d’aria nell’attimo del disastro, l’occhio spalancato dell’orrida sorpresa, La scarica di adrenalina prima dello schianto. Ho già provato questa sensazione. E’ ebbrezza pura, è silenzio profondo, è inutile affannarsi, è il limite tra essere e non essere più, è confine prima del dolore finale.
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