domenica 28 ottobre 2012

Natura morta

La giornata non ha avuto mezzi termini. Sono uscito, grazie al cambio d'ora, prima del dovuto. Sulla spiaggia, deserta fotografia di un film di Antonioni, l'aria ancora tiepida mi entrava nella felpa. Peppe era contento come può esserlo un cane che vede davanti a sè una distesa dove correre e cagare a volontà. Nelle cuffie "Le clochard" dei Focus sembrava accompagnare il movimento del mare. Speravo, come al solito tento da anni, di incontrare sulla riva, in quel punto dove l'onda si ferma sulla sabbia e torna indietro, lasciando un'impronta lucida per un istante, i miei fantasmi. Sono convinto che in quel luogo si possano incontrare i demoni malvagi o buoni non importa, i quali ti sussurrino ciò che vuoi ascoltare o che temi. Anche oggi niente. All'improvviso, dai lati del fosso Saraceni, una lama di vento freddo, senza se, senza esitazione, ha cambiato le sorti del giorno e della stagione. E' l'aria che porta l'umido del fosso, l'odore degli sterpi secchi e dei torrenti fangosi. Lì, in quella natura morta, di canne e tronchi sulla sabbia, è iniziata la fine di quest'anno. Mi sono seduto sull'ultima sdraio, dimenticata da Roberto, aperta, sotto un capanno, a fissare giù, a sud, dove ritengo possa trovarsi la verità che ora non comprendo. Non ancora.

sabato 6 ottobre 2012

44

Non mi aspettavo il 2012. Non lo aspettavo per quello che è accaduto. Un meccanismo si è messo in funzione. La macchina definitiva, quella che aziona la seconda parte della vita, quella che viaggia sul rettilineo prima della discesa. Ora vedo l'orizzonte, senza monti, senza pendii, senza le ripide salite. C'è una pianura ondulata, disegnata da arbusti solitari, immersa in una continua attesa dell'alba. E questo la prima tappa del viaggio che terminerà all'inizio del declivio che mi porterà dentro il buio. Allora, sul bordo, prima di iniziare a scendere, mi volterò un attimo indietro, senza il rimpianto, senza nostalgie. Ora il caso mi ha offerto di rivivere il mio corpo, come quando, tanti anni fa, sapevo fare, per la strada, sulle rocce, nelle nebbie d'inverno. Quest'anno ho portato a termine due triathlon medi, un triathlon olimpico, un triathlon over olimpico e due duathlon classici, oltre ad una nuotata di fondo. Non avrei scommesso un centesimo anni fa sulle possibilità di riuscire. Il mio lavoro mi ha permesso di capire quello che so fare e quanto abbia imparato dai miei errori. Riesco a lavorare il legno, il ferro, la pietra, con semplicità. Posso montare congegni, risolvere problemi pratici a dispetto degli anatemi lanciati dai miei avi circa l'inettitudine della nostra stirpe a lavori manuali. Posso litigare con una persona. Non ci sarei mai riuscito prima. Posso chiedere scusa ad una persona. Non ci sarei mai riuscito prima. Ho eliminato dai miei pensieri problemi che non posso risolvere. Posso finalmente archiviare quaranta anni di musica rock, archiviando anche tutti quelli che ancora ascoltano gli Zeppelin. Ho rinunciato a bere vino, ho rinunciato agli insaccati, ho rinunciato ai fritti, ho rinunciato al Dio degli eserciti. Ho imparato a scrivere in maniera mediocre, in modo da essere comprensibile a tutti ma soprattutto, sono guarito dalla malattia del leggere. Senza libri si sopravvive, si sopravvive specialmente oggi, perchè leggere fa male, fa venire gli scrupoli, fa prevalere i rimorsi, i dubbi. Leggere è dannoso, può rovinare la vita. Spero di essere guarito. Si, ora mi sento splendidamente stupido...

venerdì 20 gennaio 2012

La cravatta


Non so spiegare perchè accade. Ho la malattia dei ricordi e so che questo mi porterà, con il passare del tempo, in una sorta di monomania nella quale rifugiarmi, eliminando il presente che andrò a vivere. Tra questi ricordi che si accumulano come la polvere sui libri che non leggo più, ci sono quelli che rappresentano, stupidamente, alcuni avvenimenti della mia infanzia, che non hanno alcun valore specifico ma che la memoria, in modo beffardo, ha salvato dalla vita vissuta quasi quarant’anni fa. I ricordi sono quelli di un bambino, in un palazzo di un quartiere residenziale milanese degli anni ’70, che aspetta il ritorno del padre dal lavoro. Mio padre è stato, nella storia familiare, l’elemento catalizzatore delle sciagure familiari, economiche e relazionali; l’uomo sul quale, le inadeguatezze di una famiglia del sud e dei suoi riti e pregiudizi ancestrali, hanno trovato martirio ed espiazione. Due ragazzi troppo giovani per sposarsi: l’una col desiderio di scappare da un padre tiranno, l’altro senza l’ausilio affettuoso di una figura paterna e narcotizzato da una madre la quale, pur di non averlo in mezzo alle palle, lo aveva fatto crescere a pacchetti di sigarette e piatti di pasta. Due ragazzi, di quelli che oggi starebbero a casa tranquillamente con i genitori, buttati dalla quiete bigotta delle loro provincie d’Abruzzo, in una città caotica e laboriosa, quale era Milano tra i sessanta ed i settanta, dove tutto poteva essere ed ogni fortuna avrebbe potuto essere costruita. Così un bambino, allora figlio unico, aspettava il padre, un padre incapace di gestire tutta quella vita, mentre una madre alla quale già non importava nulla di lui, preparava una cena fatta di pubblicità del Carosello. Aprivo l’armadio nel quale vi erano appese le cravatte. Papà faceva il rappresentante ed aveva una serie di vestiti di quelli che hanno fatto storia nella horror fashion degli anni ’70: larghi completi in velluto verde con pantaloni a zampa di elefante, camicie, dai colli che neanche Ricardo Montalban in Fantasilandia e le cravatte... Di quelle che ricordo, una era la più orribile creatura sartoriale (sebbene papà si servisse da un suo amico che aveva un negozio di alto livello dietro la Scala) che avesse concepito mente umana. Era marrone con rombetti ricamati in oro e spigoli a frange barocche, il tutto su uno sfondo arancione e beige. L’armadio aveva le ante ambedue dotate di specchi per tutta la loro altezza. Si otteneva un effetto particolare ed inquietante, ponendo gli specchi l’uno di fronte all’altro con un angolo particolare. Uno specchio rifletteva la mia immagine ed, allo stesso tempo, questa immagine veniva riflessa nell’altro specchio, il quale a sua volta , la rimandava nel primo, creando un effetto moltiplicatore fino a che l’immagine si perdeva in una sorta di limbo infinito in fondo agli specchi stessi. In quei momenti, io bambino, indossata la cravatta e messa un cintura in cuoio arancione, quasi ad atteggiarmi a novello supereroe, pensavo fosse quella la porta per entrare in un’altra dimensione sconosciuta e misteriosa. Mi trovavo, quindi, a richiudere in fretta e furia le ante dell’armadio, con il terrore di venire risucchiato negli specchi senza poterne più uscire. Suonavano alla porta. Papà era tornato. Nonostante i momenti passati da bambino con mio padre, siano rari ed egli ci abbia assicurato, con la sua inettitudine, a me e mio fratello, un futuro fatto di nulla e di vita alla giornata, questi sono ricordi indelebili, più indelebili di quanto lo siano stati quelli di mia madre che ci ha allevati con amorevole cura. O no?