lunedì 20 gennaio 2020

Ognuno ha il suo imbuto



Ho iniziato ad avere coscienza dell’imbuto all’età di vent’anni. Prima non ci pensavo. Credevo di vivere eternamente sul piano non inclinato della giovinezza. Ogni luce era più luce ed ogni amore era l’amore. Ci si infiammava per una parola non detta, bruciati dallo sguardo di una ragazza qualsiasi. I dolori erano palpabili e ingiusti ma brevi come l’entusiasmo per una canzone passata improvvisamente alla radio. Quando si è presentato l’improrogabile, il gesto con il quale decidi di dare un percorso alla tua vita, è giunto il momento di entrare nell’imbuto. All’inizio ci camminavo sul bordo, imprudente, ignaro della sua meravigliosa levigatezza, arrogante dei muscoli che mi trattenevano dallo scivolare dentro troppo in fretta. Li avevo visti, tanti amici, cadere velocemente fino al punto più stretto: il primo che mi fece impressione fu Massimo. Qualche giorno prima eravamo andati giù al mare insieme a Paolo. C’era tempesta e le onde scavalcavano il muro del molo nord. Decidemmo di scommettere su chi non si sarebbe fatto colpire dalle onde, correndo velocemente lungo il marciapiede ad occhi chiusi. Tornammo a casa bagnati fradici e divertiti. Qualche tempo dopo, Massimo andò via, a causa di una macchina troppo vecchia per affrontare la strada. Compresi, da allora, come l’imbuto fosse reale e spettava a noi seguirne la discesa obbligata e al tempo stesso arbitraria, tentando di farlo meno velocemente possibile. Talvolta ho conosciuto persone incapaci di accettare la strada, qualcuno avrebbe voluto risalire la parete, aggrappandosi ai bordi. 
Con gli anni, il bordo dal quale, i miei occhi di ragazzo gettavano oltre lo sguardo, si è fatto sempre più alto, come un muro di cinta. Sono costretto ad alzare la testa per vedere le nuvole o il sole, bisogna farlo, è necessario non vedere la strada verso il fondo, se si vuole procedere senza lo sgomento ci prenda alla gola. Le nuvole sul nostro capo, quelle che ci fanno ancora sognare, segnano le giornate nelle quali perseguiamo lo scopo della vita: evitare il dolore.

martedì 7 gennaio 2020

Il fantasma del Natale qualunque

Mi era concesso posizionare  i babbi Natale di cioccolata, rivestiti di stagnola, sull’albero in plastica che avevamo comprato al Carrefour. Un albero triste come può esserlo solo un abete di plastica. Delle poche cose presenti alla base di questo affare fatto di ferro filato e aghi di poliestere verde, più di tutte mi affascinava  il regalo aziendale concesso benevolmente dalla premiata ditta nella quale lavorava come agente. Lo immaginavo , insieme agli altri colleghi, ammucchiati nella sala riunioni, sorbirsi il discorso di fine anno del megapresidente galattico. Tutti dovevano sorridere, giulivi del prezioso dono. Il cesto troneggiava come un non precisato scrigno dei tesori abbastanza malcelati. Un panettone Alemagna dalla confezione azzurra, ci ricordava, con l’effigie del Duomo, la lontananza dall’Abruzzo, seguiva un torrone bianco Sperlari, troppo duro per i denti da latte della mia fanciullezza. Uno spumante Gancia dal tappo in plastica bianca si appoggiava dolciastro, al panforte Sapori. Non riuscivo a spiegarmi come mai fosse consentito quello spargimento indiscriminato di canditi, dolciumi che odiavo con sommo disgusto, tanto che il cesto era per me qualcosa di semplicemente inutile. Tuttavia ero convinto che avesse una certa importanza per mio padre quasi fosse una sorta di promozione sul lavoro.
Con il passare degli anni compresi come i cesti non sempre rappresentassero qualcosa di positivo ma divenissero, con il tempo, una specie di anestetico per una scalata sociale che non sarebbe mai avvenuta. Nonostante tutto l’albero aveva una zona “vuota” nella quale, durante la notte della vigilia, Babbo Natale avrebbe posizionato i suoi doni per me. Uno dei primi che ricordo era un robot in latta che si caricava a molla ed aveva un bulbo in plastica verde che emetteva una lucina intermittente, grazie ad un sistema simile a quello dell’accendino, azionato dalla carica. Tra i regali memorabili della mia infanzia, un proiettore in plastica e la pista Polystil con due macchine che potevano essere condotte a folle velocità, dopo aver montato il tracciato. L’apice della felicità fu raggiunto durante la notte dell’Epifania quando i miei genitori, organizzarono per me, una sorta di caccia la tesoro, tramite bigliettini nei quali vi erano degli indovinelli che mi avrebbero permesso di scoprire la collocazione dei doni. Da quella divertentissima esperienza ho il ricordo del primo gioco da tavolo della mia vita: “Colpo grosso a Topolinia”, con le pedine a forma di Basettoni, Topolino e Macchia nera. Mi chiedevo con chi avrei giocato visto che ero figlio unico ed il mio miglior amico era tornato in Puglia per le vacanze. Fu lì che iniziai a coltivare la creatività nella solitudine. La solitudine è una condizione che implica soprattutto il concetto di perdita. L’assenza, la mancanza sono stati che possono essere declinati non solo a presente ma indifferentemente al futuro. La mia intima essenza di materialista mi porta a considerare la perdita fisica di persone o oggetti come qualcosa di irreparabile. Non ho speranze di poter relazionarmi con chi ho perso, in una dimensione diversa da quella che sto vivendo. Ciò produce una sorta di dolore continuo e costante che aumenta con il sommarsi delle perdite. La stratificazione delle assenze diventa così, un rumore di sottofondo che condiziona le giornate fino a diventare un sibilo insopportabile. Troverei molto più semplice e rassicurante pensare ad una seconda possibilità per le cose e le persone. Sono riuscito a superare anche il rimpianto e la nostalgia e questo ha moltiplicato il dolore perché lo ha reso ingiustificato, immutabile.Chiunque possieda una fede o un credo, può cercare la serenità ne l’immateriale che genera speranze. Io credo nella profonda “essenza del tangibile” che mi consente di vivere le cose e le persone ora e definitivamente. Alla mia età si iniziano a fare i conti con quello che è stato e quello che rimane, ci si sente come il viaggiatore di Caproni davanti al cartellone degli orari dei treni. Molti rimpiangono i “Natali di una volta” quasi che quella condizione che molti ricordano come “idilliaca” potesse essere replicata infinitamente e generasse lo stesso tipo di sensazione. Giudico questa nostalgia come qualcosa che si avvicini molto alla paranoia.  Siamo stati una sola volta, per ogni istante della nostra vita e non c’è possibilità di replica. Immaginiamo per un attimo che la nostra mente “finita e temporale” replicasse la stessa identica situazione per un numero imprecisato di volte: quella che un tempo avrebbe potuto essere una condizione di gioia e felicità, diventerebbe ben presto un incubo ed un’agonia. I Natali sono fatti per passare, per essere diversi gli uni dagli altri. Per questo motivo, non ci saranno più piste giocattolo sotto il mio albero o panettoni immangiabili, regalati da megadirettori generali.