Mi era concesso posizionare i babbi Natale di cioccolata, rivestiti di
stagnola, sull’albero in plastica che avevamo comprato al Carrefour. Un albero
triste come può esserlo solo un abete di plastica. Delle poche cose presenti
alla base di questo affare fatto di ferro filato e aghi di poliestere verde,
più di tutte mi affascinava il regalo
aziendale concesso benevolmente dalla premiata ditta nella quale lavorava come
agente. Lo immaginavo , insieme agli altri colleghi, ammucchiati nella sala
riunioni, sorbirsi il discorso di fine anno del megapresidente galattico. Tutti
dovevano sorridere, giulivi del prezioso dono. Il cesto troneggiava come un non
precisato scrigno dei tesori abbastanza malcelati. Un panettone Alemagna dalla
confezione azzurra, ci ricordava, con l’effigie del Duomo, la lontananza
dall’Abruzzo, seguiva un torrone bianco Sperlari, troppo duro per i denti da
latte della mia fanciullezza. Uno spumante Gancia dal tappo in plastica bianca
si appoggiava dolciastro, al panforte Sapori. Non riuscivo a spiegarmi come mai
fosse consentito quello spargimento indiscriminato di canditi, dolciumi che
odiavo con sommo disgusto, tanto che il cesto era per me qualcosa di
semplicemente inutile. Tuttavia ero convinto che avesse una certa importanza
per mio padre quasi fosse una sorta di promozione sul lavoro.
Con il passare
degli anni compresi come i cesti non sempre rappresentassero qualcosa di
positivo ma divenissero, con il tempo, una specie di anestetico per una scalata
sociale che non sarebbe mai avvenuta. Nonostante tutto l’albero aveva una zona
“vuota” nella quale, durante la notte della vigilia, Babbo Natale avrebbe
posizionato i suoi doni per me. Uno dei primi che ricordo era un robot in latta
che si caricava a molla ed aveva un bulbo in plastica verde che emetteva una
lucina intermittente, grazie ad un sistema simile a quello dell’accendino,
azionato dalla carica. Tra i regali memorabili della mia infanzia, un
proiettore in plastica e la pista Polystil con due macchine che potevano essere
condotte a folle velocità, dopo aver montato il tracciato. L’apice della
felicità fu raggiunto durante la notte dell’Epifania quando i miei genitori,
organizzarono per me, una sorta di caccia la tesoro, tramite bigliettini nei
quali vi erano degli indovinelli che mi avrebbero permesso di scoprire la
collocazione dei doni. Da quella divertentissima esperienza ho il ricordo del
primo gioco da tavolo della mia vita: “Colpo grosso a Topolinia”, con le pedine
a forma di Basettoni, Topolino e Macchia nera. Mi chiedevo con chi avrei
giocato visto che ero figlio unico ed il mio miglior amico era tornato in
Puglia per le vacanze. Fu lì che iniziai a coltivare la creatività nella
solitudine. La solitudine è una condizione che implica soprattutto il concetto
di perdita. L’assenza, la mancanza sono stati che possono essere declinati non
solo a presente ma indifferentemente al futuro. La mia intima essenza di
materialista mi porta a considerare la perdita fisica di persone o oggetti come
qualcosa di irreparabile. Non ho speranze di poter relazionarmi con chi ho
perso, in una dimensione diversa da quella che sto vivendo. Ciò produce una
sorta di dolore continuo e costante che aumenta con il sommarsi delle perdite.
La stratificazione delle assenze diventa così, un rumore di sottofondo che
condiziona le giornate fino a diventare un sibilo insopportabile. Troverei
molto più semplice e rassicurante pensare ad una seconda possibilità per le
cose e le persone. Sono riuscito a superare anche il rimpianto e la nostalgia e
questo ha moltiplicato il dolore perché lo ha reso ingiustificato, immutabile.Chiunque
possieda una fede o un credo, può cercare la serenità ne l’immateriale che genera
speranze. Io credo nella profonda “essenza del tangibile” che mi consente di
vivere le cose e le persone ora e definitivamente. Alla mia età si iniziano a
fare i conti con quello che è stato e quello che rimane, ci si sente come il
viaggiatore di Caproni davanti al cartellone degli orari dei treni. Molti
rimpiangono i “Natali di una volta” quasi che quella condizione che molti
ricordano come “idilliaca” potesse essere replicata infinitamente e generasse
lo stesso tipo di sensazione. Giudico questa nostalgia come qualcosa che si
avvicini molto alla paranoia. Siamo
stati una sola volta, per ogni istante della nostra vita e non c’è possibilità
di replica. Immaginiamo per un attimo che la nostra mente “finita e temporale”
replicasse la stessa identica situazione per un numero imprecisato di volte:
quella che un tempo avrebbe potuto essere una condizione di gioia e felicità,
diventerebbe ben presto un incubo ed un’agonia. I Natali sono fatti per
passare, per essere diversi gli uni dagli altri. Per questo motivo, non ci
saranno più piste giocattolo sotto il mio albero o panettoni immangiabili,
regalati da megadirettori generali.
Comprerò un panettone ricolmo di canditi. Non li sopporto come e più di te. Potremmo mangiarlo insieme;i canditi saranno il pegno da pagare per combattere ciò che non amiamo troppo,la solitudine.
RispondiEliminaSono d'accordo in tutto. Mi immedesimo fino all'osso, quando leggo i tuoi racconti in "agrodolce". Bellissimo.
RispondiEliminaChe bello! Certo, un bel fardello tutta questa materialità.
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