domenica 20 marzo 2022

La clessidra

Non è più il tempo di scrivere. Non metto insieme due righe dai tempi del lockdown. Non è stato facile per me, da sempre abituato a condividere sensazioni, emozioni e la cronaca del tempo che passa. Il tempo se ne frega di quello che stati combinando, non ti viene a cercare, non ti chiede di essere quello di prima. Per la prima volta, nella mia vita, sono riuscito a pianificare il progetto di “scomparire” lentamente dalla vita di questa cittadina la quale, negli anni, si è rivelata essere il mio naturale avversario. Non è il mio posto e non perché io meriti di più ma per il fatto che è il luogo sbagliato in un tempo sbagliato. L’anno scorso il mio account google maps ha calcolato come io abbia percorso una volta e mezza il giro del mondo, questo grazie al mio nuovo lavoro. Ho visto le nebbie della pianura padana, il caldo della Sicilia a febbraio, i tramonti sulla riviera ligure, il rosso del crepuscolo sui laghi del nord, la calma disperata della laguna veneta, le lunghissime sere della primavera svedese.
Ho lavorato tra i campi di colza vicino Goteborg, ho respirato l’aria di un cimitero di guerra tedesco sulla linea gotica, ho visto Firenze deserta, i canali del Ticino tra le zanzare, le pause tra i mosaici di Ravenna, le meraviglie delle cinque terre, la pioggia sulla baia del Silenzio. Tutto questo e altro potrei scrivere per far comprendere quanto Ortona stia scomparendo dai miei progetti come una foto ormai scolorita dagli anni. Avevo creduto, avevo sperato di sentirmi parte di una città che non avevo scelto ma alla quale dovevo qualcosa. Sbagliavo. Ho realizzato che è stata colpa mia. Non era il modo giusto. Volevo essere partecipe ma ero già escluso a priori. Ho ferito le persone credendo di essere la vittima. Tuttavia ho sempre avuto la convinzione che nessuno fosse indispensabile e sono giunto alla conclusione che, quando le cose non funzionano, sia giusto lasciar perdere e passare la mano. La clessidra del mio tempo è stata capovolta per l’ultima volta e credo che questi anni che rimangono, sia doveroso dedicarli ai miei affetti, al lavoro, alle letture, ai paesaggi che vedrò, agli stranieri che incontrerò, alle emozioni di un attimo, alle passeggere felicità, a una canzone che conoscerò, a un libro che mi farà ancora commuovere.

lunedì 20 gennaio 2020

Ognuno ha il suo imbuto



Ho iniziato ad avere coscienza dell’imbuto all’età di vent’anni. Prima non ci pensavo. Credevo di vivere eternamente sul piano non inclinato della giovinezza. Ogni luce era più luce ed ogni amore era l’amore. Ci si infiammava per una parola non detta, bruciati dallo sguardo di una ragazza qualsiasi. I dolori erano palpabili e ingiusti ma brevi come l’entusiasmo per una canzone passata improvvisamente alla radio. Quando si è presentato l’improrogabile, il gesto con il quale decidi di dare un percorso alla tua vita, è giunto il momento di entrare nell’imbuto. All’inizio ci camminavo sul bordo, imprudente, ignaro della sua meravigliosa levigatezza, arrogante dei muscoli che mi trattenevano dallo scivolare dentro troppo in fretta. Li avevo visti, tanti amici, cadere velocemente fino al punto più stretto: il primo che mi fece impressione fu Massimo. Qualche giorno prima eravamo andati giù al mare insieme a Paolo. C’era tempesta e le onde scavalcavano il muro del molo nord. Decidemmo di scommettere su chi non si sarebbe fatto colpire dalle onde, correndo velocemente lungo il marciapiede ad occhi chiusi. Tornammo a casa bagnati fradici e divertiti. Qualche tempo dopo, Massimo andò via, a causa di una macchina troppo vecchia per affrontare la strada. Compresi, da allora, come l’imbuto fosse reale e spettava a noi seguirne la discesa obbligata e al tempo stesso arbitraria, tentando di farlo meno velocemente possibile. Talvolta ho conosciuto persone incapaci di accettare la strada, qualcuno avrebbe voluto risalire la parete, aggrappandosi ai bordi. 
Con gli anni, il bordo dal quale, i miei occhi di ragazzo gettavano oltre lo sguardo, si è fatto sempre più alto, come un muro di cinta. Sono costretto ad alzare la testa per vedere le nuvole o il sole, bisogna farlo, è necessario non vedere la strada verso il fondo, se si vuole procedere senza lo sgomento ci prenda alla gola. Le nuvole sul nostro capo, quelle che ci fanno ancora sognare, segnano le giornate nelle quali perseguiamo lo scopo della vita: evitare il dolore.

martedì 7 gennaio 2020

Il fantasma del Natale qualunque

Mi era concesso posizionare  i babbi Natale di cioccolata, rivestiti di stagnola, sull’albero in plastica che avevamo comprato al Carrefour. Un albero triste come può esserlo solo un abete di plastica. Delle poche cose presenti alla base di questo affare fatto di ferro filato e aghi di poliestere verde, più di tutte mi affascinava  il regalo aziendale concesso benevolmente dalla premiata ditta nella quale lavorava come agente. Lo immaginavo , insieme agli altri colleghi, ammucchiati nella sala riunioni, sorbirsi il discorso di fine anno del megapresidente galattico. Tutti dovevano sorridere, giulivi del prezioso dono. Il cesto troneggiava come un non precisato scrigno dei tesori abbastanza malcelati. Un panettone Alemagna dalla confezione azzurra, ci ricordava, con l’effigie del Duomo, la lontananza dall’Abruzzo, seguiva un torrone bianco Sperlari, troppo duro per i denti da latte della mia fanciullezza. Uno spumante Gancia dal tappo in plastica bianca si appoggiava dolciastro, al panforte Sapori. Non riuscivo a spiegarmi come mai fosse consentito quello spargimento indiscriminato di canditi, dolciumi che odiavo con sommo disgusto, tanto che il cesto era per me qualcosa di semplicemente inutile. Tuttavia ero convinto che avesse una certa importanza per mio padre quasi fosse una sorta di promozione sul lavoro.
Con il passare degli anni compresi come i cesti non sempre rappresentassero qualcosa di positivo ma divenissero, con il tempo, una specie di anestetico per una scalata sociale che non sarebbe mai avvenuta. Nonostante tutto l’albero aveva una zona “vuota” nella quale, durante la notte della vigilia, Babbo Natale avrebbe posizionato i suoi doni per me. Uno dei primi che ricordo era un robot in latta che si caricava a molla ed aveva un bulbo in plastica verde che emetteva una lucina intermittente, grazie ad un sistema simile a quello dell’accendino, azionato dalla carica. Tra i regali memorabili della mia infanzia, un proiettore in plastica e la pista Polystil con due macchine che potevano essere condotte a folle velocità, dopo aver montato il tracciato. L’apice della felicità fu raggiunto durante la notte dell’Epifania quando i miei genitori, organizzarono per me, una sorta di caccia la tesoro, tramite bigliettini nei quali vi erano degli indovinelli che mi avrebbero permesso di scoprire la collocazione dei doni. Da quella divertentissima esperienza ho il ricordo del primo gioco da tavolo della mia vita: “Colpo grosso a Topolinia”, con le pedine a forma di Basettoni, Topolino e Macchia nera. Mi chiedevo con chi avrei giocato visto che ero figlio unico ed il mio miglior amico era tornato in Puglia per le vacanze. Fu lì che iniziai a coltivare la creatività nella solitudine. La solitudine è una condizione che implica soprattutto il concetto di perdita. L’assenza, la mancanza sono stati che possono essere declinati non solo a presente ma indifferentemente al futuro. La mia intima essenza di materialista mi porta a considerare la perdita fisica di persone o oggetti come qualcosa di irreparabile. Non ho speranze di poter relazionarmi con chi ho perso, in una dimensione diversa da quella che sto vivendo. Ciò produce una sorta di dolore continuo e costante che aumenta con il sommarsi delle perdite. La stratificazione delle assenze diventa così, un rumore di sottofondo che condiziona le giornate fino a diventare un sibilo insopportabile. Troverei molto più semplice e rassicurante pensare ad una seconda possibilità per le cose e le persone. Sono riuscito a superare anche il rimpianto e la nostalgia e questo ha moltiplicato il dolore perché lo ha reso ingiustificato, immutabile.Chiunque possieda una fede o un credo, può cercare la serenità ne l’immateriale che genera speranze. Io credo nella profonda “essenza del tangibile” che mi consente di vivere le cose e le persone ora e definitivamente. Alla mia età si iniziano a fare i conti con quello che è stato e quello che rimane, ci si sente come il viaggiatore di Caproni davanti al cartellone degli orari dei treni. Molti rimpiangono i “Natali di una volta” quasi che quella condizione che molti ricordano come “idilliaca” potesse essere replicata infinitamente e generasse lo stesso tipo di sensazione. Giudico questa nostalgia come qualcosa che si avvicini molto alla paranoia.  Siamo stati una sola volta, per ogni istante della nostra vita e non c’è possibilità di replica. Immaginiamo per un attimo che la nostra mente “finita e temporale” replicasse la stessa identica situazione per un numero imprecisato di volte: quella che un tempo avrebbe potuto essere una condizione di gioia e felicità, diventerebbe ben presto un incubo ed un’agonia. I Natali sono fatti per passare, per essere diversi gli uni dagli altri. Per questo motivo, non ci saranno più piste giocattolo sotto il mio albero o panettoni immangiabili, regalati da megadirettori generali.

giovedì 12 dicembre 2019

Ballare nel '69


Avevo un anno e mezzo. Abitavamo da poco a Milano. Quando accadde, mio padre decise che sarebbe andato ai funerali delle vittime. Molti erano già sicuri della matrice terroristica. La cerimonia fu partecipata, migliaia di milanesi erano presenti, silenziosi, attoniti. Papà mi raccontava la strana atmosfera allo sfilare delle bare. Anche il cielo era divenuto oscuro, color del piombo. La storia ha coperto i responsabili ma ha reso la verità più chiara a chi ha voluto leggere oltre le appartenenze. 

La polvere si muove nell’aria seguendo le correnti invisibili che entrano dalle vetrate in frantumi. Il silenzio. Piccoli incendi divampano nei mucchietti di carte e indumenti. Cadono frammenti di marmo dalle pareti rivestite. Sul pavimento, lunghe strisce di sangue terminano sui vestiti dei fattori, dei bovari, arrivati in città per gli affari. Una valigia, una scarpa, un urlo di chi cerca i suoi brandelli di carne. Le figure, in piedi, come fantasmi, barcollano sorde, in cerca dell’uscita. La città è fuori, e sul marciapiede sembra non esserci nessuno. La piazza si riempie di fari, luci arancioni, voci e lamenti. In mezzo all’ampio salone si apre la voragine per il centro dell’abisso. Le anime ci entrano, fino a scendere all’inferno. Lo puoi vedere, il vuoto che lascia quel pozzo dentro lo stomaco delle persone che si affacciano lungo l’orlo. Ci sono i fogli per terra, ma non ti serviranno. Quando stasera i ragazzi ti avranno aspettato invano per cena, dopo aver dato da mangiare alle bestie, qualcuno bussera’ alla porta. Aprirà il figlio, quello maggiore, al quale hai giurato di passare l’azienda, con i cavalli e le vacche. Perché gli hai raccontato che solo la terra non avrebbe mentito anche quando l’avresti bagnata col sangue. Un carabiniere giovane, mandato dalla caserma, dirà ai tuoi, che è successo qualcosa a Milano, una bomba dentro una banca. Il toro ora sbuffa, nella stalla. Lo hai strigliato prima di andare. E’ il maschio da esibire alla fiere, quello che ti darà la progenie migliore. L’occhio triste della bestia guarda invano nel buio come a cercare il padrone che gli stringa il giogo. Il tuo ultimo respiro a fissare il solaio annerito dal fumo. La bestia ora china il capo, perché, prima o poi, arriverà il beccaio e tu, Alfio,  non sarai lì a fermare la sua mano.


martedì 10 dicembre 2019

Viaggio della morte del Sud (Capitolo 3)


“E’ tornato Pietro! Pietro!” Il reduce si presentò, cappello in mano, nello studio del Conte. Il povero Barone era morto, facendo maritare Cecilia ad un proprietario confinante, il Conte di Scarano, un gentiluomo avanti negli anni.  “E così tu saresti il fattore, quello che stava tanto a cuore al mio povero suocero?” “ Sì Signore, e vorrei chiedervi di tornare a servire la Signoria vostra. Non chiedo che di tornare alle mie bufale.”

“Dovrò parlare prima con la mia consorte, donna Cecilia”, rispose il conte. A Pietro si strinse il cuore, come se una tenaglia volesse staccarglielo dal petto. Lui era rimasto fedele a l’amore impossibile. Ma la terra aveva bisogno di famiglie pronte a coltivarla. Non avrebbe potuto esistere niente tra un bovaro ed una baronessa. Cecilia era stata ai voleri del padre, perché le terre venissero condotte da un altro par suo.  Così, nel secondo anno di guerra, davanti al notaio Di Salvo, il matrimonio fu combinato senza l’amore. Cecilia aveva accettato quel vecchio storpio come una rosa accetta la morte.

mercoledì 4 dicembre 2019

Viaggio della morte del Sud - Capitolo secondo



Pietro divenne un giovane forte e bello. Le ragazze facevano a gara per avvicinarlo ma lui no, lo aveva promesso al Barone: avrebbe rinunciato a farsi una famiglia pur di badare a Cecilia. Passava sull’aia tirando i buoi per l’aratro, a sera. Dalla finestra della casa padronale usciva la musica del pianoforte. Cecilia cantava una vecchia aria di pescatori e Pietro si fermava ad ascoltare. Cecilia conosceva il rumore degli zoccoli ferrati e si affacciava . A Pietro bastava quel sorriso per sapere che lei era sicura. Pietro aveva troppa paura di pensare a quello che non era lecito pensare per un giovane abituato a badare alle bufale, a cogliere i carciofi, a zappare. Pietro si stringeva il collo con la mano callosa, quando, nella calura estiva, la giovane Cecilia disegnava, con il suo corpo agile, un’ombra snella sui muri di calce. La ragazza percepiva lo sguardo del suo bovaro, sulle spalle, dietro la nuca, come un soffio leggero a rinfrescarle le tempie sudate. Avevano giocato insieme da bimbi, si erano azzuffati, nascosti dietro il canneto, stringendosi l’un l’altra, con l’ardore innocente che solo i bambini avrebbero potuto avere. Ora tutto era diverso .Cecilia aveva terrore e desiderio delle mani di Pietro. Sfiorarsi sarebbe stato come passare la mano su fuoco, attratti dal calore, quasi si volesse ardere come  ceppi. Pietro era solo un povero fattore, quale scandalo sarebbe stato, dichiarare l’amore per Cecilia!


“Devo partire, Donna Cecilia! E’ scoppiata la guerra!” La ragazza chinò la testa. Pianse con un sibilo impercettibile, mentre Pietro si strofinava le mani quasi a consumarle. “ Come faremo con le bestie e i campi?” Avrebbe voluto urlargli in faccia la giovane, in piedi davanti a lui nel fienile colmo di paglia dorata. Cecilia fermò le mani di Pietro, le strinse e lo portò velocemente in fondo ai covoni, aprendo la sua camicia di seta, offrendogli i suoi seni. Assaporarono il gusto delle loro lacrime, lungo la pelle nuda, uno sull’altra.

sabato 23 novembre 2019

Durmì



Ho deciso che devo dormire. E’ l’unica maniera per difendermi. Tutta la mia giornata è incentrata sul fatto che, qualsiasi cosa io potrò portare al termine nelle ore di veglia, tutto sarà finalizzato al momento nel quale, tirata su la coperta, ci infilerò le gambe dentro e sprimaccerò il cuscino. A sera, non vedo l’ora di coricarmi, dopo una doccia bollente, per sprofondare nel nulla sicuro dell’oscurità Divento nervoso, irascibile, devo mettermi nel letto, chiudere gli occhi, non pensare, quello che potrò fare, lo farò domani perché tanto è lo stesso. E’ l’unica cosa intatta, pura che mi è rimasta. Dormire ininterrottamente almeno sei ore. Dormire nonostante il collo mi si stia piegando inesorabilmente verso destra e percepisca un dolore continuo, senza tregua, come un intruso che venga a modificare la trama dei miei sogni. Nella stanza potrebbe entrare chiunque, un ladro, un assassino. Io non me ne accorgerei. La mia sveglia non è così traumatica, quando posso dormire indisturbato. L’unica cosa è che devo ristabilire i confini tra me stesso e le motivazioni della mia diffidenza verso la nuova giornata: bestemmio. Conosco molti i quali, al risveglio, sentono la necessità di accendersi una sigaretta, pisciare o attaccarsi alla tavoletta del fondente. Lo facevo anch’io, una volta. Ora ho sostituito la cioccolata con l’imprecazione. Le azioni si susseguono con ripetitività maniacale: mi alzo, bestemmio, vado al bagno, indosso i pantaloni stando in bilico su una gamba, saluto i cani e preparo il caffè. In quella mezz’ora che precede la sveglia del resto della famiglia, riesco a continuare l’indefinito che si è materializzato durante il sonno e che rappresenta la base inconsistente sulla quale costruire la giornata. La notte invece, diventa il luogo nel quale sono nessuno, i miei nemici sono lontani, impegnati a combattere battaglie contro altri. 
Non russo. Non so come reagirei se qualcuno mi svegliasse, nel cuore della notte, per rivelare la mia debolezza inquieta, le mie frasi orribili, nel deliquio di un incubo che la mattina ho la forza di negare a me stesso. Le verità che nascondo durante il giorno, sono lì, alle porte del mio sonno, pronte a distruggere l’impalpabilità cadenzata e silenziosa del mio respiro. Ricordo mio nonno, vittima dell’insonnia, il quale non dormiva perché temeva di essere colto dalla morte. Nel suo enorme giaciglio intorno al quale troneggiava una barocca lettiera di ottone lavorato e sulla quale aveva appeso una radiolina sempre accesa, egli stava, circondato dall’oscurità, in una sorta di veglia narcosi, come una sentinella costretta alla guardia, durante una notte gelida e tranquilla. Per una strana sorte, proprio di fronte al muro della sua camera, si ergevano le alte mura della caserma degli alpini agli angoli della quale, ragazzi in corvè, battevano gli stivali per il freddo, chinando spesso il capo, nelle ore più buie, per un colpo di sonno, tra un’imprecazione per l’ingiustificata penitenza. Erano in due, di notte, il marmittone e mio nonno, a vegliare sulla notte, quasi un invisibile nemico, stesse appostato, pronto a tagliar loro la gola, ai primi cenni di sonno continuo. La radiolina trasmetteva, nella casa, una voce meccanica, talvolta uscita da un lontano, incomprensibile radio giornale d’oltre cortina, captato a stento dalle onde medie. Mio nonno, il quale aveva passato gli ultimi quarant’anni della sua vita con questo sonno disturbato, è morto di notte, nel deliquio di un disfarsi delle sue membra, in tardissima età. No, neanche a me piacerebbe morire durante la notte. Preferirei farlo appena sveglio, al mattino, dopo una bestemmia e un’abbondante colazione.