domenica 10 maggio 2009

Reek of putrefaction

Non ho mangiato carne per tre mesi.
Saturo di cadaveri bovini ho rigettato l’idea del sangue per un lungo periodo a causa della mia stessa materia. Nel gonfiore della sazietà ho immaginato l’azione del vomitare eternamente brani di fese, sottospalla, ali, petti, ventresca. Nel chiarore del mattino autunnale, stretto nel dovere di un padrone chiamato cliente, accetto senza attenzione un lavoro in un piccolo cimitero della zona. Non ho particolare ritrosia nell’affrontare i silenzi delle tombe, anzi l’ovattata atmosfera dell’ambiente dona al lavoro un ritmo meno serrato ed una attenzione altrimenti meno costante in altri consessi. Sono nella cappella di famiglia di un mio amico e lavoro alla sua sistemazione. La cancellata principale si apre ed entra un camioncino dei necrofori. Si tratta delle solite operazioni che loro definiscono di routine, come la riesumazione di resti umani sepolti da anni per la conservazione nell’ossario, in modo da liberare posti per i morti che saranno. I morti nonostante abbiano in sé la fine della nozione di tempo, possono essere riportati per epoche e stili di inumazione. Ma questo è un cimitero particolare. Nei volti, nelle età che leggo avidamente sulle lapidi, è raccontata una storia di estrema miseria e di emigrazione. Una zona estremamente povera che ha visto il partire per altre nazioni come possibilità di salvezza. Chi è rimasto è stato stretto nella morsa della malattia, della povertà. Così negli sguardi di questi uomini, queste donne, miei coetanei, ma così vecchi da sembrare miei trisavoli, ritrovo le carestie di queste paese, dove oggi vengono a morire solo i pensionati. Le foto in bianco e nero, sono scattate, come in un macabro rituale, sul letto di morte. Una fila di bambini, stretti nelle loro fasce, gli occhi serrati nel freddo del nulla, vecchie con il fazzoletto nero, le mascelle strette, gli spigoli duri delle fronti. Forse è il mio Abruzzo, quello che non ho mai voluto vedere. C’è una sorta di strana assonanza con la Basilicata dei Sassi di Matera, quella della civiltà del destino ineludibile, della vita come peso, dell’inanità sugli eventi. Una voce mi risveglia dai miei pensieri. Il necroforo ha bisogno di me. Mi chiede se ho un demolitore perché la lapide della cappella non viene giù. Mi adopero per aiutarli, visto che ho gelosia di riavere i miei attrezzi. Si lavora con delle mascherine e già la cassetta per le ossa che verranno trovate è aperta sul prato vicino. La lapide cede, dalle polverose macerie emerge una vecchia cassa, di quelle intarsiate, ancora laccata di lucido. La scendiamo in tre. La cassa è pesante, e stranamente, non si è sfondata. Mi racconta il becchino preoccupato che di solito una cassa si sfonda a causa della corrosione da parte del liquido di putrefazione. Il fatto che la cassa sia intera, vuol dire che il processo non si è compiuto. Ci mettiamo i guanti. Un giovane necroforo, secco ed allampanato, inizia a rompere il legno della bara. Ai nostri occhi appare come un bozzolo, l’involucro rigonfio di zinco. Sembra una bomba in procinto di scoppiare. Ci guardiamo con sempre maggiore preoccupazione. Con una martellina molto affilata, si inizia ad aprire la lamiera come fosse una scatoletta di tonno. Veniamo investiti dal puzzo della morte. Un puzzo di morte antica che si propaga immediatamente in tutta l’area circostante. Sotto il sole del pallido autunno, riusciamo a malapena in una confusa identificazione dell’ammasso che ci troviamo davanti: la cassa, stranamente , non contiene un morto ma due. Nel liquame putrido, di ossa, vestiti impregnati di una fanghiglia marrone, un tempo carne viva, due corpi,una moglie ed una marito, morti a poca di stanza di tempo, condividono la stessa tomba, divisi da uno strato di zinco ormai consunto. Sotto la moglie, si vede una melma verdastra nella quale galleggiano le ossa del congiunto. Lo spettacolo riesce ad impressionare anche il più vecchio tra i becchini. Non si può tornare indietro. Così, muniti di guanti, tuta e maschere si procede ad estrarre queste ossa ancora inzuppate, per comporle nelle cassette dell’ossario. Più tardi, i tecnici della disinfestazione provvederanno a bonificare l’area. E’ difficile avere il ricordo degli odori, se questi non vengono richiamati alla memoria da un odore simile. Nonostante la tuta e due bagni consecutivi, mi sento nelle narici un olezzo indelebile che impregna qualsiasi cosa mi arrivi alla vista. Mi guardo allo specchio e vedo me stesso, annegato, in quella mota putrida. Vedo il mio corpo, lo vedocambiato rispetto a quello che avevo da giovane, lo prevedo vecchio, cadente, lo vedo morto. Tutto quello che sono, quello che sento, tra qualche anno sarà solo un fastidioso affare per un becchino svogliato.

2 commenti:

  1. Ciao, perdonami se vado off topic. Sono l'amministratore di un blog cinematografico dedicato alla Settima Arte e non solo.

    Mi piacerebbe se accettassi la mia proposta di scambio link. Che ne pensi? ;-)

    Fammi sapere.
    Drewes
    http://angolofilm.blogspot.com/

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