38 gradi. Dai vetri sudici della camera, un sole diretto, violento, fa ribollire l’aria . Senza sosta, senza pietà, il sarcofago di gesso che avvolge le parti offese di questo corpo è una crosta di vulcano. Tutto brucia, prude, senza possibilità di essere grattato, di essere lenito. Sento l’odore della carne tumefatta e sudata di un corpo immobile ma vivo, prodromi di una piaga da decubito dove l’infermiere amico carceriere della mia infermità, metterà le mani, con strane pomate. Sono in un forno, ma vivo. Lento entra il dottore, zuppo di sudore, sotto il camice, nudo. Lo guardo. E’ il dottore che seduce, dentro ripostigli inutilizzati, le infermiere puttane, pronte all’uso, nella noia del turno di notte, tra i silenzi ed i ronzii delle macchine a tenere in vita i malconci. Un dottore stanco di queste sofferenze buttate tra le lenzuola, cambiate sovente. Questa notte lo strazio. Da una camera lontana, il lamento di un maiale allo scanno, di una donna. Fratture esposte, in suppurazione, di una caduta tra degenti di un ospizio. La donna languiva da giorni nello scantinato senza soccorso. Urla ritmate, appena mani misericordiose sfiorano il suo corpo, come una corda di violino rovente sotto le dita del musico. Sono urla dagli inferi che fanno vibrare le sbarre di vecchio alluminio del mio letto, le cassa monolitica del mio scafandro, il mio petto sudato. Non posso dormire. Potrei essere io, come quella donna un giorno, un uomo vecchio, inutile perché tale, abbandonato da figli crudeli, nel baratro di un caseggiato di cura assieme ad altri grinzosi canuti, dementi, incontinenti, fetenti, dagli sguardi persi nella delusione di genitori che avrebbero amato una carezza dai figli nell’ultimo giorno dei loro respiri, ricevendo al contrario, il dono terribile della morte da soli. Se fossi io quel vecchio, alzerei tra i tormenti questa carcassa di lividi, per trovare un finestra dalla quale gettarmi senza rimpianti. Non mi è neppure concesso un suicidio.
Nessun commento:
Posta un commento