Papà mi viene a trovare. Silenti le suole di gomma sul linoleum sconnesso dell'Ospedale. Reca una busta, stretta dietro la schiena, le mani unite. Una coppetta di gelato, di quelle col biscotto finale. C'è un tumore che porta dietro, al bronco ed al polmone sinistro. Anche questo mi porta, come il gelato. Non sono in camera. Mani forzute e stanche del mio essere prono, mi hanno adagiato su una vecchia carrozzella. Dicono che devono disinfettare la stanza. Posano il mio Cristo vivo, sulla nappa sdrucita del sedile, con l'asciugamano sotto al culo. Con la mano del braccio ingessato, pinzo la ruota per spingermi. Fuggo dal corridoio del reparto, su questa carrozza da storpi, in mutande. Le labbra del taglio alla milza, cucite come un arrosto di Pasqua, rossastre di croste e infezioni guarite, si riflettono sul vetro della porta. Le guardo passando, ruotando, ruttando bestemmie alla Madonna di gesso con fiori di plastica, all'ingresso. Se spegni i pensieri, su una vita intera di carrozzella, l'esercizio del moto seduti, anche piacevole potrebbe apparire. Ma subito torni al volto dell'amico tuo, in catene sulle rotelle, incastrarsi tra il marciapiede e la ruota di un Suv, deriso da ragazzine, che avrebbe potuto avere in mezzo alle gambe, se funzionassero. La vedi e senti, istantanea, la scossa dell'arnese che ti trasporta, come un insetto urticante. Il tuo corpo la respinge. Guardo oltre la vetrata di una sala d'aspetto deserta nel mattino estivo di sanatorio. Lo vedo, papà, uscire dall'ascensore, col sacchetto. Non si accorge di me. Non mi vede sulla carrozzella, non vorrebbe vedermi e così il suo cervello offusca ed annienta la possibilità di un figlio burattino, fantoccio, cosa morta su ruote. Poi si gira, senza parole, realizza. Volto grigio, rughe marroni. Alza la mano, odora ancora dell'ultima sigaretta fumata all'entrata, due dita gialle, mi tirano indietro i capelli. Vorrei non vedesse. Mi spinge in camera. Il gelato si scioglie.
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