venerdì 27 febbraio 2009

Sangue


C’e l’accumulo sanguinoso. L’emorragia lenta come un fungo cortinario, mortale dopo giorni dall’assunzione, arriva fino all’attenzione dei camici bianchi, in attesa delle ferie estive. Se ne accorge il mio addome, gonfio, dolorante, come una sacca di vipere contorte. Il respiro si mozza alla ricerca dell’aria chiusa della stanza. Polmoni condotti ad apnee non volute. Perde, la mia milza, il liquido prezioso: Ricordo il caldo dietro la testa, sull’asfalto, ad arrossare le linee spartitraffico. Sono tanti, intorno a me. Stanotte ho avuto la prima crisi. Di nuovo, nello spasmo dell’oscura insonnia, si è alzata l’ala che avevo afferrato e stretto il primo giorno. Ho sentito il suo leggero alito sul mio petto. Stringevo con la mano, un polso, una caviglia. La cosa tentava di sfuggirmi. Qualcuno ha suonato il campanello. Ero riverso a terra, raggomitolato, come un coniglio, colpito alla testa dal fattore, in procinto di un salmì. Mi è spettato questo dolore, questa sorpresa di nuovi mali, a sconfessare la forza del mio corpo. Cerco di capire il Dio avverso che si diverte, come un aguzzino argentino, a rinnovare torture sul desaparecido, ormai certo che il peggio sia passato. Il Dio. Quello che fa accadere le cose, affinchè gli uomini possano porvi rimedio. Quello del dolore, che fa amare la semplicità delle quieti. Perchè queste fitte senza scopo? Possiamo apprezzare la normalità, senza la coscienza della sofferenza? Più, è grande la sofferenza, minori saranno le nostre aspettative del benessere quotidiano. Il Dio scherza con gli uomini oppure lascia mano libera al suo avverso. E’ la volontà di Dio o è una sua momentanea assenza? Le finestre del dolore si aprono, sul Dio che gira un attimo la testa, che si china ad allacciarsi una scarpa, sul Dio che sbadiglia al volante o sul Dio che chiude gli occhi, starnutendo. Come può l’avverso, essere presente sempre, essere la distrazione del perfetto, onnipresente? L’avverso è dentro l’urlo di dolore dallo stomaco, di un femore spezzato nelle carni. Un occhio odioso si rivolge in alto,
al rimprovero bestiale.
E’ l’urlo dell’avverso, a richiamare il Dio
sulla sua piccola sconfitta.
Sono stretto, nella morsa di un forcipe d’acciaio.
Odore di anestetico, la luce forte della lampada operatoria.
Mi toglieranno la milza.
Respiro nella maschera. Ora il nulla.

lunedì 23 febbraio 2009

The butcher nun


Entrò velocemente nella sala parto. Sotto la veste da infermiera pendevano i lembi della tunica monacale. Un coltello di quelli da macellaio affondò con un grido nella pancia della partoriente con una precisione tale da evitare di uccidere il bimbo che aveva la testa ormai fuori dalla vagina. I dottori indietreggiarono senza aver ancora realizzato l’accaduto. La suora appena estratta la lama, con rapidi fendenti, recise le carotidi di tutti i presenti. Dal ventre della madre uscivano sangue e liquido, gli occhi strabuzzati, ghiacciati tra il dolore del parto e l’orrida sorpresa della morte. In un attimo fu reciso il cordone ombelicale e la suora uscì da quel bagno sanguinario con il bambino avvolto dentro un panno. Prima che la guardia al piano potesse intervenire, aveva già preso la prima porta che dava al sotterraneo delle caldaie. Il commissario fu svegliato dalla solita telefonata. Erano mesi che quella cantilena andava avanti. Un Ospedale, una clinica, visitate dal killer. Non riusciva a capire come fosse possibile per l’assassino entrare così facilmente dentro la sala parto per compiere quelle strage con rapimento. Le indagini avevano dato pochi risultati. C’erano dei collegamenti strani in quei crimini. Tutte le coppie, prima del parto, avevano chiesto assistenza spirituale presso un vecchio convento di suore, al centro della città, un convento nel quale operavano ancora poche e vecchie donne. Il convento era una grigia ed immensa costruzione che partiva occupava un intero isolato. Era una di quelle zone talmente centrali, da risultare, paradossalmente tanto anonime. Il Commissario suonò alla portineria. Una vecchia suora, con un bastone e lo sguardo acido gli aprì, non senza prima aver fatto un terzo grado al poliziotto. - E’ con suor Michelina che deve parlare- disse la vecchia. Gli venne incontro una suora di mezza età, alta, dal viso tagliente e dagli occhi di un verde profondo ed inquietante. Andarono nel suo ufficio. Il commissario chiese notizie sulle coppie, vittime degli omicidi e dei rapimenti. La suora diede informazioni tanto precise da essere quasi false. Il commissario aveva notato una musica di sottofondo eccessivamente alta, tanto che si faceva fatica a parlare. Non aveva osato chiedere di abbassare il volume. Stava per accomiatarsi e aveva appena messo la mano sulla maniglia della porta, quando il brano cessò, ed il Commissario udì distintamente dei vagiti provenire dal fondo del corridoio. Venivano dalla cappellina del convento. Estrasse la pistola. La suora, senza dire una parola fece cenno di seguirla. Entrarono e si diressero dietro l’altare dove c’era una porticina sul muro. Ora i vagiti erano fortissimi. Il Commissario sbiancò . Vi era un seminterrato illuminato da tetre luci al neon. Lungo questo seminterrato vi erano decine di cullette nelle quali piangevano altrettanti bambini. - I genitori non sarebbero stati degni di crescere questi figli - disse la suora con tono pacato. - Era nostro dovere morale e cristiano, preservare queste creature di Dio dal peccato e dalla corruzione- Il Commissario tentò di girarsi di scatto. Fece appena in tempo a vedere il filo dell’ascia scendere sulla sua testa..

giovedì 19 febbraio 2009

Ftònon ton teòn


Ho visto sicuramente il motivo di tutto questo. Là dove non potè l’ignavia dei miei avi, riuscì l’avversa sorte, contro di me tapino. Nell’ultimo sonno, quando la luce malata del finestrone, mai lavato, della mia camera d’ospedale, taglia la notte, le palpebre frenano il giallo vivo della visione mattutina, nel policromo variare degli arancioni, degli azzurri roventi, dei verdi fastidiosi. Sembra di stare sotto il sole di luglio ad occhi chiusi. Questo velo acido, chiama i peggiori pensieri di sempre, che devono essere pensati subito, una medicina necessaria da prendere immediatamente, per togliersi la preoccupazione . Mio padre, dal tumore statico, combattuto con l’arma del suo male. L’uomo dei progetti incompiuti, appositamente per causare la propria ed altrui rovina. Dagli inizi di buona volontà, ma dalla conduzione disastrosa degli effetti. Provava piacere in quell’amabile lamento dell’autocommiserazione, quando, chi ti è caro, ti sorregge il volto a gettare lacrime sulla sorte. Indisponente come l’artista convinto dell’unicità dell’opera sua. Reticente con i cari, sbottonato con i passanti, fintamente amici di un giorno. Raramente vidi soldi uscire dal diretto guadagno del suo lavoro, spesso vidi mia madre garantire con firme, decine di cambiali. Fu rovina. Inevitabile, lenta. Una discesa che tutto trascina a valle. Cambiarono mestieri, usi, certezze, sorrisi. Ci piegammo alla vita nuova. Ero deciso a contrastare con il muscolo, un vento contrario, sabbioso, sferzante. L’ho fatto, fino a quando la sorte ha spezzato queste ossa, ricordandomi di seguire per bene, le orme di mio padre, che era passato lì da poco. Il terrore di riuscire ad essere come mio padre, mi spinge ad una rovina che non voglio. E più ho paura di essere uguale a lui, più divento lo specchio della sua storia. Risolvo tutto, sterminando la mia famiglia.

lunedì 16 febbraio 2009

Le Schegge del demonio


Qualcuno potrebbe pensare al segno divino. Quando la folla dei parenti queruli, assedia letti di degenti in apparente tranquillità, si scatenano le sequele di madonne ausiliatrici e trinità in appostamento contro progetti demoniaci. Arrivano gli amici che hanno studiato. Adesso mi trafigge il fianco, un dolore solido, di ematoma in espansione. Scende l’ematocrito, sotto il piglio attento del primario in visita serotina. Si aggiunge un dolore nuovo, del corpo che reagisce, che si sveglia, vergine da siffatti traumi. Altre fratture. Schegge di ossa, tenute strette dai muscoli del consumato podista. Vorrebbero, queste schegge sanguinose. scendere fino alle mie caviglie, come i resti dell’arrosto di una scampagnata, a bruciare, bianchi, tra le ceneri del falò, prima di andarsene. Ma eccoli gli amici, frequentatori di librerie d’essai. Non sono riusciti a trovare il loro Dio, quello uno e trino, nelle chiese vicino casa. Un Dio impegnativo, perchè presuppone l’abbandono dei vizi a loro tanto cari. Allora lo cercano nelle Indie, in Arabia, nei libri colorati di Buddha tascabili. Divinità sagge e terrene, da utilizzare, possibilmente a stomaco pieno, dopo un pranzo ed una bella canna. Mi costruiscono un kharma su misura, di quelli dove nulla e casuale più della casualità di una vita già scritta, dall’inevitabile destino. Poi ci sono quelli che hanno studiato il greco, tra ubris e colpe dei padri che ricadono sui figli. Preferisco il silenzio morfinoso che attutisce i sensi e soffoca l’udito su questa ciurma di sparatori di cagate. Secondo la gerontocrazia della famiglia, fatta di zie dal rosario d’osso di muflone e nonne occhialute, avrei decine di ceri da accendere su tutta la via Francigena. Chi mi infonde la presunzione che, pletore di santi si siano occupati di me in quel momento? Come può un uomo, essere pieno di questa boria antropocentrica, che lo fa sentire padrone motore del tempo? Quanti annunci mortuari ho letto, di gente, che pensava alla propria morte, come fine dei tempi! Adesso il centro del mondo è la mia anca, io sto a lato

venerdì 13 febbraio 2009

Vertebra


Noto la totale nullità delle ore. Non c’è quel tempo esterno, di chi cammina per strada o vive nelle case lontane da questa finestra. L’orologio è l’antidolorifico.
Nel cavo di questo marciume che impasta la mia bocca, tento parole di circostanza con l’infermiera. Ha un profumo sgradevole, che si mischia al forte odore della sua pelle sudata. Nervosa, le guance tirate, la messa in piega appena fatta. Non la scoperei assolutamente, nonostante il perverso erotismo di una infermiera sado, che ti sottopone ad enormi clisteri.
Ricordo, forse avevo tolto le tonsille, il risveglio dall’anestesia, avevo quattro anni. La stessa sensazione di claustrofobica impossibilità al movimento, stretto tra lenzuola tirate e bagnate di piscio. Arriva il prete. Il prete di ronda. Un cacciatore di debolezze. Un vigliacco procacciatore di conversioni, sotto il vincolo di moribondi senza più urla e depressi vecchietti senza famiglia, parcheggiati in lontane corsie.C’è una ricattatoria immagine di padre Pio, come garante dell’antiprivacy del dolore.
Chi soffre è vicino a Dio.
Chi sta al sesto piano, in rianimazione, è più vicino a Dio rispetto a quelli del quarto, in riabilitazione.
Il prete tenta un approccio sulla comunanza della sofferenza, con la croce.
Preferisco addentare la mia coscia di pollo,

mercoledì 11 febbraio 2009

Serial blow job


Le ragazze si fermarono davanti al bar. Faceva caldo. Erano intenzionate a rimorchiare. Entrarono. Il bar era affollato. Si diressero con aria sicura verso il bancone. Alcuni uomini, si girarono per curiosità e le guardarono. Avevano un’aria sicura le ragazze, come se conoscessero già la strada. I loro occhi malcelavano l’istinto della caccia. Erano lì per quello. Una volta al bancone, ordinarono due birre, quindi si misero di spalle, appoggiando la schiena sul bordo del lungo pianale di legno. Le gambe penzolavano dai sedili alti. Qualcuno , passando davanti a loro, notò le calze.. Quelle calze che le donne qualsiasi non mettono. Le calze di quelle che vogliono farsi vedere le gambe...Le ragazze trovarono l’uomo. Era un tipo abbastanza alto, corpulento, sulla quarantina. Stava giocando a biliardo con altri due tipi. Ridevano forte ed avevano tutta l’aria di essere quei tipi di maschi che non hanno bisogno di tante parole per starci, con delle ragazze come loro. L’uomo notò che le due lo stavano guardando. Dopo qualche minuto, con una scusa, terminò la partita e si diresse verso il bancone, vicino alle due. Le ragazze si passarono un’occhiata, veloci e feroci, poi gli sorrisero, mentre l’uomo chiedeva un drink al barista. Non fu difficile attaccare discorso. Quei discorsi banali che servono a formalizzare quello che li seguirà. Uscirono dal locale. L’uomo azzardò un gesto di confidenza, abbracciandole entrambe. Le ragazze non si opposero. Le cose andavano più veloci del previsto. Mentre una guidava, l’uomo era impegnato sul sedile posteriore con l’altra. L’auto si diresse verso la periferia. La radio a tutto volume ed i finestrini aperti. C’era un vecchio disco di Sly & the Family Stone nell’aria: «Turn me loose», mentre il tipo aveva i pantaloni quasi completamente scesi. All’improvviso la macchina si fermò in un parcheggio deserto vicino l’autostrada. L’uomo e la ragazza scesero, sempre avvinghiati. L’uomo sentì il fresco leggero della notte sui glutei, mentre la donna si inginocchiava davanti a lui, scendendogli anche gli slip. Iniziò a fargli un pompino. Lui gemeva al movimento ritmico della testa della ragazza. la teneva, stringendola per i capelli ed accompagnandola a sè, ogni volta che il piacere si faceva più intenso. Era al culmine tanto che non si accorse di qualcosa di freddo poggiato sulla sua tempia. Capì tutto solo nel momento in cui venne. Riuscì a sentire lo scatto del grilletto, poi il buio. Il quel momento, la ragazza in ginocchio aveva scostato la testa dal suo cazzo, giusto in tempo per essere investita in pieno viso da un fiotto di sperma, sangue e pezzi di cranio. L’uomo aveva l’unico occhio rimasto sbarrato e cadde all’indietro, con un tonfo sordo e sabbioso. L’altra ragazza, con la pistola fumante, stretta ancora in mano, guardò l’uomo riverso a terra, con sufficienza. Le due risalirono in macchina. Era tardi, dovevano rientrare in convento.

martedì 10 febbraio 2009

La vite


Il Dottore arriva. E’ lui, adesso, il mio Dio. Devo ancora decidere se odiarlo o meno.Guarda la cartella clinica e le foto della Tac, si rende conto che le foto sono al contrario e gira la cartella. E se un Dio, creandomi, avesse sbagliato il verso delle foto? Non posso andare di corpo da dieci giorni. Il mio intestino si è stretto in una morsa di calcio e petti di pollo da allevamento. Si diffondono nella stanza, indecifrabili, i fumi delle mie contrazioni. Non odio il Dottore, lo trovo, sinceramente, inutile. Ho iniziato una cura. La vite che cigola, girando nella mia gamba, taglia il silenzio di questi risvegli dalla fronte sudata. C’e’ un forte odore di mercurocromo su sangue stantio. Minestre. Mari di minestre calde sotto il naso, ancora tappato dalla polvere della calce. Il mio dottore inutile, dalla voce compressa e monotonale, non tocca più la mia vena autostrada sul dorso della mano. Si limita ad iniettare ,nel tubo della flebo, un trasparente antidolorifico. Scende, il liquido. Il calore prende il braccio, mi stringe il petto, mi taglia il fiato. Ho lasciato l’orologio sul comodino.

sabato 7 febbraio 2009

Sognomorfina numero 2


Il narcotico, loto omerico, scende, con la buonanotte del benevolo infermiere addetto alla mia flebo. Ho ancora le scarpe da ginnastica, nella nascita di un sognoricordo, provocato volutamente. Non è una galleria qualsiasi. La discesa ghiaiosa. Sto correndo. La galleria entra nella montagna. Corro da ore. A monte vedo avvicinarsi l’entrata rotonda ed irregolare dell’oscuro budello. Sotto le scarpe, il rumore dei sassi che grattano metronomici la gomma delle suole. E’ un rumore piacevole, si accompagna al ritmo del fiato spezzato, del cuore avvezzo al mio passo. Entro nell’oscurità. Mi accoglie il calmo umido di una sottile aria di conforto. Adesso procedo nella penombra di un ossigeno rinfrancante. Sto bene, non sono mai stato così bene. E’ il passo del podista ritmato, affaticato, felice, dalla cadenza acquistata, ad libitum. La galleria non è molto lunga. Vedo una fine ed una luce. Non è la galleria, ritorno, di chi è quasi morto, dei risvegliati dal coma. Alla fine della galleria si apre un largo pozzo, di fumi sulfurei e caldi. Sembra un bagno termale. Sto sul bordo di questo catino di mota. Immerse nell’acqua, donne in cerchio, fianchi e seni generosi, si ricoprono di questa fanghiglia balsamica. Scendo in acqua. Non ostile alle loro grazie, mi lascio ricoprire, di questo liquido caldo e brunito. Anche se fumoso, il fango è fresco, e dona sollievo alle mie stanche membra di corridore. Il sonno leggero fa sparire la visione di soccorso... Apro gli occhi.
La bocca dura, acida, di poltiglia non digerita.
Mia madre mi sta lavando il viso con una spugna umida.
Riesco a chiedere un caffè, purchè sia amaro, a detergere l’incubo orale.

venerdì 6 febbraio 2009

Odio o del quarto giorno coi tiranti


Dicevo di quest’odio. Odio, quindi credo. Credo, perchè odio. Odio il dio e lo rendo vero grazie a questo odiare dal profondo. Odio è la più grande forma di ammissione dell’esistenza di Dio. Un ateo possiede una sola faccia di questa medaglia: può essere libero dal Dio e le sue regole, non ammettendone la sua esistenza, ma non può veramente indirizzare il suo odio verso il soggetto delle sue disgrazie, perchè il soggetto non esiste. L’ateo odiante, è un essere coraggioso, che non può giustificare le avversità della vita, addossandone la causa ad un essere infinitamente avverso. Un ateo in pace con se stesso e gli altri, è l’essere più fortunato sulla terra. Il credente è un essere pigro, delega la propria vita come ad un’assemblea di condominio alla quale non può partecipare. Quando il credente sbaglia, non se la prende con il suo Dio ma gli chiede scusa. Una croce, un volto, una statua di gesso come questo braccio fasciato, murato, al quale chiedo scusa. Il credente è debole, pecca ,sbaglia, si pente, pecca di nuovo, si ripente. Se un credente avesse veramente coerenza e riconoscesse l’impossibilità di spezzare questo circolo, prenderebbe la saggia decisione di suicidarsi. Ma qui, interviene la sua stessa religione, a salvarlo: suicidarsi è peccato. Si può peccare e pentirsi, ma non ci si può pentire del peccato di suicidio. Per chi odia in genere e quindi è il vero credente, suicidarsi è arrendersi a Dio ed è quindi l’unico atto di fede.

mercoledì 4 febbraio 2009

Sognomorfina numero 1


Caccerei dal trono un Buddha, inerte, insensibile, assiso nel vuoto del suo Nirvana senza dolore. Cerco, la divinità più indifesa al mio odio di pietra, che spaccasse la teca di vetro dei fedeli, inginocchiati in calde serate di giugno. Passa l’infermiera. E’ l’ora di chiudere il sipario del mio astio, legato da bende, teso da trazioni, sul letto di corsia. L’occhio cede, alla flebo del narcotico, si chiude alla nuova visione, che mi accompagna da giorni, nel sonno artificioso. L’ago che sento, entrare nella caviglia, unico spazio libero alla luce chirurgica, ora si trasforma: sono cento, mille aghi. Mi trovo immerso nel fondo di questa vasca di grotta, tra rocce e spiragli di luce. Devo salire in superficie. Mi aiuto, aprendo gli occhi per un appiglio migliore ai miei calcagni. Sulle pareti della vasca, che supera di poco la mia altezza, mucchi di membrane vaginee, sembrano, come grappoli di uova di seppia, respirare, e succhiare la torbida acqua vicina. Al centro di ogni membrana, infissi, degli aghi. Si scoprono ritmicamente all’apertura di queste valve gommose e inumane. Cerco di salire, ponendo i piedi tra una membrana ed un’altra, ma sono vicinissime tra loro, e tra queste, ancora più piccole membrane con aghi più piccoli. I miei piedi, ad ogni passo, vengono bucati, martoriati. Fiotti di sangue, il mio, sembrano far aumentare il ritmo vorticoso delle contrazioni, di questi esseri famelici. Più in alto, le membrane più grandi, non hanno aghi, ma lunghe lame, dal filo di rasoio. Macellano i miei piedi, le mie mani, che si aggrappano disperate a queste gommose, entità carnivore. Mi spingo sul bordo della vasca...

lunedì 2 febbraio 2009

La vicina


La vicina aveva un culo che tendeva i pantaloni come un pallone da calcio. E poi, vestiva così strano. Quei piercing, anche sull’ombelico sempre in vista e quel tatuaggio... Le partiva di traverso sulla pancia e le andava a finire sotto la cintura, in direzione del pube. Tommaso immaginava dove si fermava quella strana scritta e avrebbe tanto desiderato leggerla ad alta voce. La ragazza era una tossica. Nessuno avrebbe potuto sospettarlo, data la floridezza del soggetto. Nessuno sapeva, neanche i suoi, che avesse la Malattia. Solo Tommaso lo sapeva, ma lo nascondeva sotto quell’ aspetto segaligno e freddo. Un giorno, era venuta per un esame, nel laboratorio in cui Tommaso lavorava e lui, da curioso, aveva voluto indagare sulla ragazza. Un po' come fanno i fotografi, quando qualcuno gli porta da sviluppare un rullino. Si mettono a sbirciare le fotografie e invadono le vite degli altri. Così, sapendo, le passava davanti, salutandola freddamente, mantenendo quell’aria scandalizzata, perfetta per un mediocre come lui. Ma se lei avesse conosciuto veramente Tommaso, sarebbe scappata in casa, serrando a porta due mandate…l Tommaso era un satanista. Di quelli peggiori. Peggiori come possono essere quelli che nella vita comune, sono i più anonimi ed i più inquadrati. La sua passione per il satanismo acido era passata ed ora si stava spingendo verso un gioco pericoloso, senza ritorno. Avevano iniziato con le orge, lui e gli altri. Ogni tanto sgozzavano qualche gallina. Ma più che drogarsi e praticare sodomia, non andavano. Poi era arrivato il Maestro. Avevano raddoppiato l’intensità degli incontri e c’ era scappato il primo morto. Una puttana. Prelevata con la scusa di un servizietto, narcotizzata e portata sul luogo del Sabba in stato di semincoscienza. Il fatto è che la troia aveva pensato bene di svegliarsi durante la violenza di gruppo e il Maestro le aveva tappato la bocca con uno straccio. Aveva esagerato. Era morta soffocata. Tutti erano colpevoli. Il Maestro aveva proferito minacce terribili se qualcuno avesse parlato. In ogni caso fu semplice liberarsi del corpo. C’ era una conceria vicino e quelle vasche piene di acido svolsero un bel lavoro. Eliminato l’oggetto del delitto, Tommaso eliminò il crimine commesso dalla sua coscienza, dato che ne avesse ancora una. Così, sazio di sparizioni, non si accorse che la vicina non si vedeva da qualche giorno. Ma era sabato. La sera dell’incontro. Erano in circolo, attorno all’altare, dove giaceva la vittima. Tommaso non riusciva a distinguere bene intorno a se. Aveva preso una dose eccessiva e non aveva gli occhiali, quei grossi, stupidi occhiali a culo di bottiglia. In un attimo furono tutti addosso alla vittima. Nella nebbia della sua trance, Tommaso riuscì a capire che la vittima era una donna, come al solito. Ma il fatto strano è che fosse consenziente. Tommaso riuscì a prenderla da dietro. La sodomizzò. Spingeva più delle altre volte, tanto che sentì qualcosa di suo lacerarsi. Come una puntura alla base del suo membro. La teneva da dietro , tirandola per le spalle. Davanti alla donna due uomini si facevano masturbare. Tommaso godeva. Era un misto tra l’effetto della droga e l’orgasmo. Sentiva solo il freddo marmo dell’altare, premere sulle sue ginocchia. Venne e istintivamente nella penombra, girò la donna incappucciata verso di se. L’unica cosa che riuscì a leggere, prima di ficcarsi il coltello in gola, fu la fine di quel tatuaggio sul pube...

domenica 1 febbraio 2009

Vetro


Nel silenzio liquido, della strana morfina, dallo stomaco un nervo fino dentro al cervello. Il nervo di arrotola, come un budello di corda, tira giù le visioni dall’alto di questo baratro, dai contorni informi, incerti. Ora è un velo di sabbia, ora un mano dal palmo aperto, che scende come un manto, mi arriva addosso, mi copre gli occhi...la mano di un dio, un demone, una morte pagana , malevola o pietosa. Sul palmo della mano una stigmate blasfema, risanata, è il baratro di prima.. Un orifizio cicatrizzato al centro delle dita, scende ,scende...Mi sveglio...mia madre accanto. Odio. Mi sveglio odiando. Sento lo strisciare vetroso dei denti, serrando le mascelle. Il pensiero dell’odio, si realizza nella tensione muscolare, dell’avambraccio che ordina al pugno di stringersi e tremare. Ma sono ingessato. Il mio arto, racchiuso in una prigione d’intonaco, grida l’inane gesto di stizza repressa. L’occhio rivolto verso il soffitto, scoperchia il tetto, come a trovare un cielo contro il quale urlare l’abominio al Dio, senza faccia. I capelli, i miei capelli! Un groviglio di polvere e sangue raffermo, si riscalda sotto la nuca ferita, nel cuscino dietro la testa da giorni. Potrei odiare il Dio crocifisso, dandogli questa gamba dolente, questo fianco annerito, intriso di medicamenti inutili