Uelando era un uomo
bellissimo. Non aveva un nome italiano. Il padre, infatti, molti anni prima,
aveva trovato questo nome dentro un vecchio libro nella stiva della nave che lo
riportava dagli Usa. Concezio, in gioventù, come molti meridionali, aveva
provato a cercare fortuna oltre oceano. A New York, aveva fatto molti lavori.
Non aveva conquistato nulla eccetto il cuore di una donna: Annette, una minuta
ragazza irlandese, dagli occhi di un azzurro profondo. La giovane lavorava in
una stireria e non aveva ottima salute. Si erano sposati in una piccola chiesetta,
al centro della comunità d'immigrati italiani e lui, dopo averle tentate tutte,
aveva deciso di tornare in Italia, pensando che l’aria fine del Gran Sasso
avrebbe potuto migliorare la salute di Annette. Il viaggio sul piroscafo fu
terribile, la giovane sposa era incinta e le sue condizioni si aggravarono
ulteriormente. Fu durante i giorni di traversata che trovò per caso quel libro.
Concezio non sapeva una parola d'inglese e la giovane sposa, tra un accesso di
tosse e l’altro, gli traduceva alcune pagine. Il libro conteneva alcune saghe
nordiche ed era riccamente illustrato. Tra tutti i racconti, Concezio fu
colpito dalla figura di Weland, il fabbro degli dei, quello che forgiò
Durlindana, la spada di Orlando. “Se mio figlio sarà un maschio, lo chiamerò
Weland” diceva, rivolgendosi ad Annette. La moglie gli sorrideva teneramente
sapendo, in cuor suo, che lei non avrebbe potuto veder suo figlio crescere. Riuscirono
in tempo ad arrivare a Loreto. Annette spirò subito dopo il parto tenendo
stretto il figlio sul suo grembo. Il piccolo fu chiamato Weland per volontà di
Concezio.
Tra i parenti ci fu una sorta di rivolta generale, data anche dal
fatto che era tradizione, a quei tempi, che i nuovi nati avessero lo stesso
nome dei nonni o di qualche santo protettore. “ Chi jè ssu’ Ueland?” Predicava
Nonno Zopito. Anche la nonna era contrariata e considerava la serie di
circostanze sfortunate accadute durante la nascita del bimbo, come una sorta di
maleficio. Una donna straniera, morta partorendo un figlio rosso come le chiome
secche delle pannocchie, dagli occhi azzurri come un demone tentatore e con un
nome così strano. Concezio non batteva ciglio ma dovette piegarsi all’ignoranza
dell’Ufficiale dell’Anagrafe, il vecchio Gino, il quale, prossimo alla
pensione, aveva con gli anni perduto l’udito. Non ci fu verso, nonostante
Concezio provasse a scandire il nome ad alta voce, Gino capì fischi per
fiaschi. Si alzarono alte le bestemmie quando il padre, una settimana dopo,
andò a chiedere una copia dell’estratto di nascita: il nome del bimbo era
destinato a rimanere per sempre “Uelando”. Così il piccolo crebbe tra la
bottega di fabbro del padre e i vicoli di Loreto dove i suoi coetanei
impararono a costruire mille giochi di parole sul suo nome. Nonostante questo
pel di carota dagli occhi blu crescesse in altezza e forza, tuttavia provava
una sorta di complesso di inferiorità rispetto agli altri ragazzi, forse a
causa del fatto che, essendo orfano, vivesse con la nonna che mal lo
sopportava. La vecchia non riusciva superare le sue superstizioni e trattava il
nipote giusto il necessario per non fargli mancare cibo e vestiti puliti.
Weland crebbe senza affetto, il padre non si rassegnava alla morte di Annette,
aggrappandosi alla speranza che il figlio crescesse solo per poterlo aiutare
nella fucina. Fu per questo che Concezio iniziò il ragazzo all’arte della coltelleria,
costringendolo a stare in bottega per ore, sottraendolo ai giochi di strada.
Weland guardava gli amici scorrazzare per il paese. Ogni tanto lo chiamavano
scherzando: “Uè Lando, Papà ti ha messo sotto?”. All’inizio questa condizione
parve dargli fastidio. In seguito, affinando le sue doti all’incudine, iniziò a
provare un sottile piacere nel forgiare coltelli e lame. Con gli anni, divenne
un uomo alto e vigoroso, il lavoro pesante gli aveva donato un fisico muscoloso
e tonico, il tutto unito a dei capelli rosso fuoco che ora teneva lunghi legati
con un laccio di cuoio. Su tutto, malamente nascosti dalle tracce di fuliggine
sul suo viso, spiccavano due occhi di un azzurro accecante, profondi e
ipnotizzanti. Il paese era piccolo, non era difficile che fosse notato,
soprattutto dalle donne. Weland non si sottraeva agli sguardi delle fanciulle
le quali, passavano davanti alla bottega ogni giorno. Spesso qualcuna, più
audace, con la scusa di ritemperare qualche coltellaccio da cucina, si
fermavano a parlare con lui. Il giovane fabbro non era un uomo di grande
conversazione ma bastava un solo sguardo per accendere in quelle ragazze un
desiderio irrefrenabile. Weland, forse alla ricerca della madre che non aveva
mai avuto, si sentiva attratto dalle donne maritate anche più grandi di lui.
Erano queste, in paese, un gran numero. Spesso da sole in casa tutto il giorno,
perché i mariti lavoravano nei campi o pascolavano le greggi o addirittura
emigrati in terre lontane, lasciando le consorti alla gestione della casa e
all'educazione della prole. Weland ebbe la sua prima esperienza con una delle
più graziose. Si recò da lei per ritirare alcune falci da affilare. Il marito
della donna era nei campi e sarebbe rientrato solo a sera, giusto il tempo
perché il fabbro potesse intrattenersi piacevolmente con la giovane. Altri
incontri seguirono a questo. A lei, Weland, fece dono di un coltello gobbo, con
il manico intagliato nell’ulivo. Sul manico una piccola scena di caccia, con un
segugio che puntava la selvaggina. Il marito della donna, notò il coltello
nella dispensa ma non si fece molte domande. Dopo qualche mese la donna rimase
incinta ma la cosa sembrò normale dato che, a quei tempi, le famiglie erano
numerose. Un sospetto velato colse l’uomo quando guardò il neonato per la prima
volta: capelli rossi e occhi azzurri.
Molto
strano per una famiglia di contadini dai capelli neri come il carbone. Weland
non si fermò alla moglie del contadino. Iniziò ad intrecciare relazioni
clandestine con molte donne del paese e delle contrade. Ad ogni donna, il
fabbro regalava un coltello finemente intagliato, come pegno del suo amore e a
ogni donna lasciava il ricordo tangibile di un figlio illegittimo, un bimbo o
una bimba, dai capelli rossi e dagli occhi celesti. I mariti delle fedifraghe,
distratti dalle incombenze nei pascoli o nei campi, i quali trovavano nel vino,
l’unico momento di conforto alle loro fatiche, non avevano particolari motivi
di diffidare delle consorti. Con gli anni una piccola comunità di ragazzini dai
capelli rossi gironzolava per il paese. Weland era cosciente di ciò che aveva
combinato, ma continuava imperterrito nella sua attività di seduttore. Le cose
filarono lisce fino ad una fatidica fiera delle pecore, che si teneva in estate
presso Campo Imperatore. Alcuni pastori di Loreto e dei paesi vicini avevano
fatto salire le loro greggi, passando da Forca di Penne. Portavano anche i
figlioli per insegnar loro il mestiere della pastorizia. Fu quando le pecore si
furono radunato in gran numero sulla piana che i convenuti, arrivata sera, si
riunirono davanti ai fuochi per mangiare, bere e concludere le compravendite
del bestiame. Ogni pastore aveva accanto a se i propri figli. Giunta l’ora del
pasto, gli uomini estrassero dalle sacche i formaggi di loro produzione per
condividerli e avere dei pareri dagli altri circa la qualità degli erbaggi.
Alla luce del grande falò, quattro pastori si avvicinarono tra loro per
scambiarsi pezzi di pecorino. Tesero le mani nelle quali avevano i coltelli e
sulla punta della lama il proprio formaggio. Stranamente i coltelli sembravano
avere la stessa forma, la stessa lavorazione. All’inizio i pastori risero per
la coincidenza. Antò di Penne esclamò: “ Mimmuccio, chi te lo ha fatto questo
gobbo? E’ tale e quale al mio!” “ Lo avevo a casa nella dispensa, lo trovai
qualche anno fa, me lo ricordo perché mia moglie era incinta di Roccuccio il
mio secondogenito” A quelle parole, il figlio di Mimmo si alzò. Antò rimase
allibito. Non era possibile: il ragazzo aveva capelli rossi e occhi azzurri,
proprio come il suo Aligi che ora era seduto vicino al fuoco. Provò un brivido,
quando realizzò che, in effetti, anche lui non si ricordava bene di come fosse
capitato il suo coltello in casa. Una cosa la ricordava: lo aveva trovato
nell’armadio della camera quando la moglie era incinta di Aligi. Guardarono gli
altri due pastori i quali, erano rimasti impietriti ed ora si stavano girando
verso i loro figli, due agili ragazzetti dai capelli rossi e dagli occhi
celesti. Non dissero nulla. Sapevano benissimo che l’unico in grado di forgiare
simili coltelli, in zona, avrebbe potuto essere solo Weland. Quella sera, i
loro cuori si chiusero nella tenebra del tradimento subito. Mimmo era percorso
da un fremito di rabbia che gli saliva dalla gola e gli rendeva la fiamma di
quel fuoco insopportabile. Girò tra i commensali, osservando le mani di tutti
coloro che avevano coltelli simili al suo. Ne scoprì altri due. Loro non
avevano figli da iniziare al mestiere di pastori. La loro prole era composta di
femmine che ora si trovavano giù in paese. Con la scusa di voler comprare delle
pecore, fissò loro un appuntamento per parlare di affari, una volta tornati giù
a valle. Una volta a casa, nessuno degli uomini mostrò alle proprie mogli di
aver scoperto il loro adulterio. Tuttavia, nel loro sangue di pastori scorreva
ormai il fiume dell’odio. Iniziarono a mostrare disaffezione per quei giovani
figli che pur avevano creduto fossero carne della loro carne. Antò venne a
Loreto, recandosi da Weland perché gli forgiasse dei forconi per il fieno. Lo
guardò, mentre contrattava sul prezzo. Scrutava il colorito dei suoi lunghi
capelli, le linee del volto, la chiarezza profonda degli occhi, cercando di
negare una qualsiasi coincidenza su quanto accaduto nei giorni della fiera. La
figura giovane era innegabilmente simile a quella del suo Aligi: stesse spalle,
stessi zigomi. Gli sembrò di impazzire. Dopo alcuni giorni si riunirono per
concertare la vendetta. Decisero di lasciar passare qualche mese e di consumare
il delitto in un luogo dove potesse essere difficile accusarli di un crimine
efferato. Weland aveva da qualche tempo, preso a girare tra feste, e mercati,
per vendere i suoi coltelli e
affilare
lame ma soprattutto, per consumare tresche amorose, lontano dal paese natio
ormai terra bruciata. In inverno si spostava verso la costa spesso e
volentieri, rimanendo fuori alcuni giorni con il suo carro. Mimmo studiò
attentamente gli itinerari del fabbro, per scegliere un paese nel quale non
avrebbero potuto riconoscere lui e i suoi complici. Non era stato freddo quel
gennaio. Weland aveva fatto mercato a Pescara e ora si dirigeva ad Ortona, in
occasione della festa di San Sebastiano. Il carretto cigolava lentamente lungo
la salita della
Fonte Peticcio, una
strada che portava fino zona nord della cittadina, chiamata dagli abitanti
lu’ frecavende. Il vecchio cimitero era
posizionato proprio in quel punto, una sorta di affaccio panoramico sul mare.
Weland rise cinicamente nel vedere le cappelle mortuarie e le lapidi
posizionate come se i defunti avessero potuto godere della splendida vista. Non
notò subito la donna seduta sul ciglio della strada. Quando si accorse di lei,
la donna alzò lo sguardo. Era vestita di nero, con uno scialle che le copriva
il capo. Dalla stoffa nera uscivano boccoli rossi, di un colore intenso e
brillante sotto la luce del grigio sole invernale. Il giovane fabbro rimase di
ghiaccio quando i suoi occhi sprofondarono in quelli della sconosciuta,
anch’essi di un azzurro profondo ed inquietante. “Non avreste per caso un po’
d’acqua?”. La donna pareva essere molto affaticata. Weland le porse il fiasco
che penzolava dal carro. “Sono venuta per la festa, perché mi hanno detto che
accadrà una cosa terribile”. Il giovane la guardò come se si trattasse di una
pazza “Siete sicuro di andare?” La viandante prese la mano del fabbro, fissando
il suo volto, quasi lo supplicasse ma egli ritrasse subito la mano
allontanandosi con il suo carro. Rimase colpito da quelle parole. Dopo poco
metri si girò quasi volesse chiedere qualcosa a quella sconosciuta. Sul ciglio
della strada non c’era più nessuno. Weland rimase colpito da quell’incontro ma
la folla dei pellegrini accorsi in città per la festa lo rigettarono nel lavoro
e negli affari. Anche i pastori erano arrivati in città e facevano di tutto per
non essere notati, avendo indossato vestiti da contadini, dopo un bagno decente
ed una rasatura approssimativa. Decisero di dividersi, per non dare
nell’occhio, dandosi appuntamento a
Porta
Caldari con la promessa di studiare tutti i movimenti di Weland. Scese la
sera e tutti i pellegrini iniziarono ad ammucchiarsi nella piazza antistante
alla basilica di San Tommaso per il rito dei fuochi d’artificio in onore di San
Sebastiano martire. Il fabbro era in mezzo alla folla, al seguito di una
fanciulla di cui era divenuto cavaliere per una sera. I fuochi pirotecnici
iniziarono. I pastori, i quali si erano posizionati ai lati della piazza,
aspettavano un cenno di Antò per dar luogo al delitto. Weland stretto tra la
gente, teneva per mano la fanciulla, Entrambi osservavano attoniti il crescendo
dei fuochi colorati e dei boati di meraviglia della folla. All’acme delle
esplosioni, un uomo grido tra la folla: “Al fuco, al fuoco! La casa va a
fuoco!”. Scoppiò il panico. La folla impaurita spingeva, tentando di fuggire
dalla piazza, mentre i fuochi continuavano senza sosta. Fu allora che i pastori
si a tuffarono nella calca. Nel trambusto generale, Walden non si accorse di
forti braccia che lo prendevano e lo portavano fuori dal mucchio di persone
urlanti. Tutto terminò in pochi minuti. Nella piazza non c’era più nessuno. Al
mattino, l’urlo di una lavandaia che scendeva alla
Font’a mare per lavare lenzuola, svelò il corpo di un uomo
penzolante sulla torre del Castello. Quando staccarono Weland dalla corda, sul
suo corpo trovarono conficcati sei coltelli da pastore, con il manico finemente
intagliato nell’ulivo.
Brano "Loving you" (Acoustic version) - Jonathan Wilson