martedì 26 febbraio 2019

Mio cugino e le tette


Non ho un ricordo esatto della prima volta nella quale vinsi. Ero uno spermatozoo allora e diversi fattori contribuirono all’esito favorevole della prima competizione: angolazione, velocità, posizione iniziale, spirito d’iniziativa, caparbietà, impegno. Entrare dentro un ovulo non deve essere stato facile e la bravura nell’aver portato a termine questa operazione prima di altri ( a meno che non si abbiano gemelli), potrebbe illuderci, sin dall’inizio, delle nostre capacità. La delusione divenne cocente quando compresi che, quelle doti da campione, erano andate perdute dopo il parto, insieme al liquido amniotico. L’impatto con la mia capacità di rinunciare alla lotta e farsi sconfiggere, avvenne durante l’allattamento: mia zia ebbe mio cugino qualche giorno prima della nascita, ma non possedeva latte a sufficienza per allattarlo al seno. Chiese così a mia madre di integrare quei miseri pasti, tramite una delle sue tette. A sentire il racconto di mia madre, il cuginetto non sembrava alquanto smunto anzi, era un pezzo di pupone con le guance simili a quei quadri olandesi raffiguranti bettole, nelle quali, panciuti cocchieri, affondano le gote a forma di palla dentro boccali di birra schiumosa. Così fece il mio cugino, si attaccò alla tetta di mia madre come una sanguetta e tirò talmente forte da prosciugare anche l’altra alla quale avrei dovuto attaccarmi io. Mi raccontano gli avi, della mia faccia interdetta quando, nell’atto della suzione , non trovai nulla da bere. Con il latte materno arrivano anche gli anticorpi. Penso di aver attento quelli che fanno amare la sconfitta. Amai anche gli sconfitti. Da subito. La mia fidanzatina all’asilo, fu una bambina down: Armanda. La difendevo dai figli di papà i quali l’avevano presa subito di mira, aiutati, in questo compito, dalle suore. Avevo un istinto nel parteggiare per gli sfigati. A me, quelli vincenti, già stavano sui coglioni. Ero un abruzzese a Milano e per giunta alle scuole primarie. Partivamo sconfitti da subito io, due sardi ed un pugliese.  Facemmo subito comunella quasi il nostro essere meridionali fosse un’isola nel mare tempestoso di questi bimbi biondicci, segaligni, con le faccette tirate a forza di respirare smog, tutti nelle loro case comprate e noi a pagare l’affitto, a non poter fare l’arrosto sul balcone perché arrivavano i pompieri. MI veniva in aiuto, ogni tanto mio nonno che si faceva un giorno di treno per venirci a trovare da L’Aquila, portando con sè una grossa valigia di finta pelle nella quale erano riposte file di salsicce, formaggi, pane di San Gregorio, carne equina, sottolii. Mentre i miei compagni baùscia si facevano cuocere la cotoletta con il burro e mangiavano la michetta io vivevo le mie notti da sogno, negli effluvi di questi salumi appesi ad una corda a prendere aria nella mia stanza. La sconfitta si annidava feroce nella pavida ritirata che avrebbe coinvolto la mia famiglia, lungo la strada verso il sud nuovamente. Non eravamo adatti. Non comprendemmo che, resistere ancor per qualche anno, ci avrebbe catapultati nella Milano da bere e avremmo avuto fama e successo. Tornammo giù, rinunciando alla definitiva purificazione dalla voglia di fegatazzo. Se fossi rimasto ancora, avrei sicuramente iniziato ad amare anch’io la cotoletta nel soffritto di burro, sarei diventato un impiegato con l’abbonamento alla metro o forse, mi sarei perso nell’eroina al Parco Lambro. Avrei vinto, se fossi sceso solo per fare le vacanze estive, ogni anno, con l’accento milanese che fa tanto sangue alle ragazzine delle nostre parti.  Avrei potuto diventare un manager maturo con i “cuggini” al paese ad aspettarmi per la festa quando si comprano le noccioline che fa tanto film di Monicelli. 
Alla fine dei miei giorni sarei tornato veramente giù, per godermi la pensione, in uno di quei palazzoni mediocri con vista mare e le piastrelle di finto parquet, a fare la spesa al mercato coperto e a dire a tutti “vuoi mettere quanta più scelta c’è nei mercati di Milano?” Sì, sarei stato un perfetto vecchio di merda, emigrato, rompicoglioni, pieno di astio verso i miei ex consanguinei terroni, pentito di aver comprato l’appartamentino sul litorale. Scendemmo, portando le suppellettili con il vecchio lupetto grigio topo di zio, un camion con la marcia che grattava, il  volante a destra e il motore al fianco del guidatore. Compresi un’altra importante sconfitta quando, entrai nella vecchia scuola di paese, provenendo dalla moderna scuola di ispirazione steineriana che avevo frequentato fino a quel momento al nord: grembiule nero, fiocco, in fila per due al bagno e punizioni corporali in puro stile sergente Hartman. Il nostro maestro ci obbligava a memorizzare funeste poesie dove cuori immacolati di Maria sanguinavano per il sacrifizio di piccole vedette lombarde e l’onore dei carabinieri a cavallo era immutabile come un assioma di Tolomeo. Rinunciai al pensiero critico nel nome di una pace tra compagni di scuola che preferivano passare le giornate a pescare capitoni sul molo martello. Ritornai un terrone puro, rifuggendo il pensiero di una metropolitana o una coscia di pollo gommosa nel fast food dello zio Tom in Corso Buenos Aires. Ci cafonizzammo con vendemmie, mungitura di pecore e concia del tabacco. Mi illudevo di avere metabolizzato la rinuncia all’Eden padano, in questo limbo agreste dove tutti eravamo di nuovo felici perché eravamo tutti sconfitti un po’ come quando tutti mangiano l’aglio e nessuno sente l’odore cattivo dell’alito altrui. In questa narcosi ho vissuto fino all’altro ieri quando, parlando con le mie figlie, ho capito che loro in questa pianura dei mangiatori di loto, non ci vogliono stare. Ho augurato loro tanti settentrioni dove la vittoria è densa come la nebbia.

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