Non ho un ricordo esatto della prima
volta nella quale vinsi. Ero uno spermatozoo allora e diversi fattori
contribuirono all’esito favorevole della prima competizione: angolazione,
velocità, posizione iniziale, spirito d’iniziativa, caparbietà, impegno.
Entrare dentro un ovulo non deve essere stato facile e la bravura nell’aver
portato a termine questa operazione prima di altri ( a meno che non si abbiano
gemelli), potrebbe illuderci, sin dall’inizio, delle nostre capacità. La
delusione divenne cocente quando compresi che, quelle doti da campione, erano
andate perdute dopo il parto, insieme al liquido amniotico. L’impatto con la
mia capacità di rinunciare alla lotta e farsi sconfiggere, avvenne durante l’allattamento:
mia zia ebbe mio cugino qualche giorno prima della nascita, ma non possedeva
latte a sufficienza per allattarlo al seno. Chiese così a mia madre di
integrare quei miseri pasti, tramite una delle sue tette. A sentire il racconto
di mia madre, il cuginetto non sembrava alquanto smunto anzi, era un pezzo di
pupone con le guance simili a quei quadri olandesi raffiguranti bettole, nelle
quali, panciuti cocchieri, affondano le gote a forma di palla dentro boccali di
birra schiumosa. Così fece il mio cugino, si attaccò alla tetta di mia madre
come una sanguetta e tirò talmente forte da prosciugare anche l’altra alla
quale avrei dovuto attaccarmi io. Mi raccontano gli avi, della mia faccia
interdetta quando, nell’atto della suzione , non trovai nulla da bere. Con il
latte materno arrivano anche gli anticorpi. Penso di aver attento quelli che
fanno amare la sconfitta. Amai anche gli sconfitti. Da subito. La mia
fidanzatina all’asilo, fu una bambina down: Armanda. La difendevo dai figli di
papà i quali l’avevano presa subito di mira, aiutati, in questo compito, dalle
suore. Avevo un istinto nel parteggiare per gli sfigati. A me, quelli vincenti,
già stavano sui coglioni. Ero un abruzzese a Milano e per giunta alle scuole
primarie. Partivamo sconfitti da subito io, due sardi ed un pugliese. Facemmo subito comunella quasi il nostro
essere meridionali fosse un’isola nel mare tempestoso di questi bimbi
biondicci, segaligni, con le faccette tirate a forza di respirare smog, tutti
nelle loro case comprate e noi a pagare l’affitto, a non poter fare l’arrosto
sul balcone perché arrivavano i pompieri. MI veniva in aiuto, ogni tanto mio
nonno che si faceva un giorno di treno per venirci a trovare da L’Aquila,
portando con sè una grossa valigia di finta pelle nella quale erano riposte
file di salsicce, formaggi, pane di San Gregorio, carne equina, sottolii.
Mentre i miei compagni baùscia si facevano cuocere la cotoletta con il burro e
mangiavano la michetta io vivevo le mie notti da sogno, negli effluvi di questi
salumi appesi ad una corda a prendere aria nella mia stanza. La sconfitta si
annidava feroce nella pavida ritirata che avrebbe coinvolto la mia famiglia,
lungo la strada verso il sud nuovamente. Non eravamo adatti. Non comprendemmo
che, resistere ancor per qualche anno, ci avrebbe catapultati nella Milano da
bere e avremmo avuto fama e successo. Tornammo giù, rinunciando alla definitiva
purificazione dalla voglia di fegatazzo. Se fossi rimasto ancora, avrei sicuramente
iniziato ad amare anch’io la cotoletta nel soffritto di burro, sarei diventato
un impiegato con l’abbonamento alla metro o forse, mi sarei perso nell’eroina
al Parco Lambro. Avrei vinto, se fossi sceso solo per fare le vacanze estive,
ogni anno, con l’accento milanese che fa tanto sangue alle ragazzine delle
nostre parti. Avrei potuto diventare un
manager maturo con i “cuggini” al paese ad aspettarmi per la festa quando si
comprano le noccioline che fa tanto film di Monicelli.
Alla fine dei miei
giorni sarei tornato veramente giù, per godermi la pensione, in uno di quei
palazzoni mediocri con vista mare e le piastrelle di finto parquet, a fare la
spesa al mercato coperto e a dire a tutti “vuoi mettere quanta più scelta c’è
nei mercati di Milano?” Sì, sarei stato un perfetto vecchio di merda, emigrato,
rompicoglioni, pieno di astio verso i miei ex consanguinei terroni, pentito di
aver comprato l’appartamentino sul litorale. Scendemmo, portando le
suppellettili con il vecchio lupetto grigio topo di zio, un camion con la
marcia che grattava, il volante a destra
e il motore al fianco del guidatore. Compresi un’altra importante sconfitta
quando, entrai nella vecchia scuola di paese, provenendo dalla moderna scuola
di ispirazione steineriana che avevo frequentato fino a quel momento al nord:
grembiule nero, fiocco, in fila per due al bagno e punizioni corporali in puro
stile sergente Hartman. Il nostro maestro ci obbligava a memorizzare funeste
poesie dove cuori immacolati di Maria sanguinavano per il sacrifizio di piccole
vedette lombarde e l’onore dei carabinieri a cavallo era immutabile come un
assioma di Tolomeo. Rinunciai al pensiero critico nel nome di una pace tra
compagni di scuola che preferivano passare le giornate a pescare capitoni sul
molo martello. Ritornai un terrone puro, rifuggendo il pensiero di una
metropolitana o una coscia di pollo gommosa nel fast food dello zio Tom in
Corso Buenos Aires. Ci cafonizzammo con vendemmie, mungitura di pecore e concia
del tabacco. Mi illudevo di avere metabolizzato la rinuncia all’Eden padano, in
questo limbo agreste dove tutti eravamo di nuovo felici perché eravamo tutti
sconfitti un po’ come quando tutti mangiano l’aglio e nessuno sente l’odore
cattivo dell’alito altrui. In questa narcosi ho vissuto fino all’altro ieri
quando, parlando con le mie figlie, ho capito che loro in questa pianura dei
mangiatori di loto, non ci vogliono stare. Ho augurato loro tanti settentrioni
dove la vittoria è densa come la nebbia.
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