La mia compagna di vita, oggi, ha la
stessa età di mio padre nell'anno in cui tutto accadde. Mi ricordo come mi comportai, come
tutti ci comportammo con lui e come, adesso, mi potrei sentire se facessi una
cosa del genere ad un suo coetaneo. Un individuo che avrebbe potuto avere gli
stessi progetti della mia compagna, lo stesso attaccamento alla vita, alla
possibilità di tentare nonostante tutto, alla caparbietà di rialzarsi dopo una
sconfitta. Noi , invece, procedemmo, in poco tempo, allo smantellamento di un
padre, di un marito, di un uomo, di un essere che aveva fallito il suo compito
ed ora poteva essere messo in un angolo, a terminare i suoi giorni senza far
nulla, in attesa della fine. A cinquantacinque anni. Chiudemmo, in pochi giorni
il suo ufficio, durante quel settembre. Lui guardava, non alzava un dito. Dopo
il secondo giorno si andò a sedere davanti al bar, come la cosa non lo
riguardasse più. Ero furioso con lui, lo ritenevo un irresponsabile ma non mi
rendevo conto di continuare ad affossare un uomo che non aveva alternative e
per il quale io non speravo alternative. Nonostante avesse colpe gravi verso
tutti noi, non mi rendevo conto del suo sguardo carico di tristezza, nei suoi
occhi su di me, il figlio dal quale aspettava una parola di conforto, di
speranza. Non avrebbe alzato la mano contro il mio astioso darmi da fare, nel
mettere a posto fascicoli, accatastare sedie, affannarmi a cercare magazzini
momentanei, nei quali ammucchiare tavoli, poltrone, scaffali, vecchi rotoli di
disegni. Mia madre, rigida, silenziosa, mio fratello efficiente, un ragazzo per
il quale mio padre mostrava un affetto non ricambiato. Si rivolgeva allora a me, nella speranza di
trovare un appiglio per non lasciarsi andare. Io lo negai, quasi avessi a che
fare con un criminale di guerra per il quale non mostrare alcuna pietà. Cercò
conforto negli estranei, quegli amici che aveva coltivato in quei vent’anni di
attività lavorativa in paese. Tutti gli stavano morendo intorno. Il vecchio
falegname era già morto per un tumore alla gola, un altro era andato via, nel
silenzio della solitudine, l’ultimo a morire fu un vecchio collega geometra con
il quale aveva condiviso tante giornate lente d’estate. Decise di morire anche
lui. Da bravo tecnico come era sempre stato, pianificò la sua fine, come in un
elenco delle opere da eseguire. Coltivò il suo tumore per otto anni, in
silenzio, consumandosi davanti a qualche tramonto sulla Majella lontana,
appoggiato ad un paracarro della strada principale. Lo vedevo da lontano, con
lo sguardo fisso verso il rosso del tramonto, perdersi sopra qualche crinale
distante, mentre il fumo della sua sigaretta veniva allontanato dal vento.
Sembrava uno di quei pastori chini ad aspettare la fine delle giornate, senza
tempo, su per le rocce di un pascolo, mentre le greggi scorrono lente davanti,
fermi, in un punto della mente o della memoria, ad immaginare un esito diverso
della loro storia, cercando di eliminare i dolori almeno fino alla notte,
quando i pensieri ti fanno rivoltare sul cuscino. Mio padre iniziò a morire che
aveva cinquantacinque anni.
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