La mia carne ha uno strano odore. Quando la benda si strappa e viene buttata, intrisa di sangue vecchio e suppurazioni, lo sento l’odore. Ricordo le parti del maiale, appena salate, sul tavolo di campagna, quando si uccideva la bestia migliore, sotto Natale. Quando il mio cranio, dette diretto, sulla soglia dei davanzali, durante la caduta, l’odore del sangue caldo, come il leggero afrore del rosso d’uovo nel piatto. Ora ascolto i nuovi cigolii delle membra ricomposte nelle sedi. Era entrato un dottore, giovane, forse finocchio, a dirmi che le ossa, da quel giorno in poi, le avrei sentite presenti, muoversi, con rumore rotondo, sfregarsi tra cartilagini allentate, immerse nel siero fino a gonfiare la pelle, in sacche da svuotare con l’ago, quello grosso. L’aria del reparto è satura di minestra e mele bianche inacidite. Ho la nausea perché respingo l’odore di me stesso. Le bestie lo sentono il puzzo della paura, lo sentono il puzzo dell’uomo malato. Come una bestia avverto l’odore di un involucro umano sbattuto dai piani alti, ad atterrare sui ferri spigolosi di un montante. Il calore, mi sveglia la notte. Sale dallo stomaco, dallo scroto, dal buco del culo, intirizzito da una contrazione inane. Ora guardo il mio vicino. Un obeso, flaccido giovanotto con una gamba inutilizzabile. Andava, il tipo, per un vecchio deposito di robivecchi, in cerca di pezzi d’autore, quando una lastra di vetro, da una vecchia porta impilata, gli recise il tendine d’Achille, di netto, facendolo stramazzare a terra come un manzo abbattuto. Difficile operazione - andava rimuginando il primario, con il codazzo di apprendisti. Mi guardava con l’occhio della commiserazione, cercando di pareggiare la sua disgrazia alla mia. Mentre parlava, amplificando il suo fato, non rispondevo, ma scoreggiavo silenzioso, non avendo altro da fare, tra un tirante ed un gesso, impastato di sudore. Se ne andò, con la carrozzella delle dodici. Solo di nuovo, con il diavolo che mi alitava sul volto la notte. Dio beffardo, mandami un uomo a pezzi, che faccia sentire quello che è stato per me, poca cosa…
venerdì 29 maggio 2009
martedì 19 maggio 2009
Asilo incubo
Un cenno del capo. Sotto l'androne alternato di ombre e fioche luci dalle porte a vetro, si espande l'odore di cartelle e mani sporche di astucci e sudore. Una processione, sabba inverso,di suore silenziose taglia in due il corridoio, al suono di scarpe vecchie di cuoio. Sono uscito dalla stanza, dove gli aliti dei piccoli corpi, si mischiano alle corde delle brandine in ordinato cerchio. L'occhio terribile, come del falco che abbia avvistato dall'alto del suo volo la preda, mi punta dal nero velo. E' l'occhio di gesso della madonna a lutto, che orribile fissa il cristo morente nellea tenebra della morte. Un urlo, voce metallica di un kapò, lungo il filo spinato del lager, mi ordina di rientrare. E' l'ora di dormire. Nessuno dei miei piccoli compagni può sottrarsi alla pratica obbligata del sonno. Ma io non riesco. Voglio giocare. Vorrei correre nello stanzone vetrato dove langue un girello scrostato di rosso. Cigola sotto la spinta di noi bambini, quando lieti ci guardiamo nel mondo che gira. Non ricordo i volti, ma ricordo la gioia semplice di un bambino sfuggito agli aguzzini, che gode pochi istanti di un gioco innocente. La suora è un Satana androgino, dalla mano fredda che mi spinge nella stanza del sonno. Non voglio, non voglio. Ora vengo costretto a sedere in lacrime, nel mio banco. Non ricordo. Ho pianto per ore. Una lunga candela di muco mi scende da una narice, le mie mutande sono piene di merda. A sera, quando ho perso oramai la voce e la forza, una mano caritatevole e familiare di sottrae all'agonia della regola. Sono di nuovo nei bagni, prima di pranzo. Bisogna lavarsi. La norma impone le mani, oltre il polso. Ma il bagno si trova , fatta una piccola salita piastrellata, nella sala dei giochi. Non si può giocare prima di aprire i nostri cestini. La suora bagna la salita con il sapone, affinchè i nostri piedi scivolino nel tentativo di raggiungere le giostre. Siamo lì, in fila, che tentiamo di tenerci al muro per affrontare il pendio. Ma il fondo sembra d'olio, i piedi non reggono, torniamo indietro inchiodati, come in quei sogni dove vuoi scappare ma la tua corsa è inane. Altro ambiente. E' L'ora di fare i propri bisogni. Le suore, come negli allevamenti dei cani di razza, tentano di regolarizzare le nostre viscere imponendoci la seduta sui vasini. Vogliamo scappare dal patibolo anale. Ma le torturatrici coi crocifissi al collo, ci ficcano il lembo del grembiule sotto il vasino affinchè ci sia impedita la fuga. Troie, troie! Urlò mio nonno, quando si accorse che tenevano la figlia maggiore, incatenata in soffitto con il tifo, in mezzo ai topi, nonostante avesse pagato rette salate. L'odio per la rinuncia alla procreazione nei grembi, l'impedimento alla funzione di madri, spinge queste donne, serrate nelle vesti della castità, a vendicarsi su piccoli inermi, costringedoli ad una disciplina insensata, fatta di punizioni protratte e continuate, torture psicologiche a piegare gli animi lieti, cristi punitori, vendicativi anche sulle anime semplici di nuovi alla vita. Crescono figli amari, chini ai terrori dell'altare, timorati delle tonache, proni alle leggi senza una causa. Un Dio non dio le ha fatte maschi, senza i sessi. Nel mio sogno, apro i cancelli dei conventi. Libero queste donne alla vita, perchè possano amare , con il corpo, con la mente, affinchè un nuovo Dio, benevolo questi, sorrida alle loro esistenze, le liberi dalle stupide rinunce della mortificazione, inflitte da maschi misogini. Siano troie allegramente, senza le colpe della carne. Continuo ad essere stitico, per principio, comunque.
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domenica 10 maggio 2009
Reek of putrefaction
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