Ho iniziato ad avere coscienza
dell’imbuto all’età di vent’anni. Prima non ci pensavo. Credevo di vivere
eternamente sul piano non inclinato della giovinezza. Ogni luce era più luce ed
ogni amore era l’amore. Ci si infiammava per una parola non detta, bruciati
dallo sguardo di una ragazza qualsiasi. I dolori erano palpabili e ingiusti ma
brevi come l’entusiasmo per una canzone passata improvvisamente alla radio.
Quando si è presentato l’improrogabile, il gesto con il quale decidi di dare un
percorso alla tua vita, è giunto il momento di entrare nell’imbuto. All’inizio
ci camminavo sul bordo, imprudente, ignaro della sua meravigliosa levigatezza,
arrogante dei muscoli che mi trattenevano dallo scivolare dentro troppo in
fretta. Li avevo visti, tanti amici, cadere velocemente fino al punto più
stretto: il primo che mi fece impressione fu Massimo. Qualche giorno prima
eravamo andati giù al mare insieme a Paolo. C’era tempesta e le onde
scavalcavano il muro del molo nord. Decidemmo di scommettere su chi non si
sarebbe fatto colpire dalle onde, correndo velocemente lungo il marciapiede ad
occhi chiusi. Tornammo a casa bagnati fradici e divertiti. Qualche tempo dopo,
Massimo andò via, a causa di una macchina troppo vecchia per affrontare la
strada. Compresi, da allora, come l’imbuto fosse reale e spettava a noi
seguirne la discesa obbligata e al tempo stesso arbitraria, tentando di farlo
meno velocemente possibile. Talvolta ho conosciuto persone incapaci di
accettare la strada, qualcuno avrebbe voluto risalire la parete, aggrappandosi
ai bordi.
Con gli anni, il bordo dal quale, i miei occhi di ragazzo gettavano oltre
lo sguardo, si è fatto sempre più alto, come un muro di cinta. Sono costretto
ad alzare la testa per vedere le nuvole o il sole, bisogna farlo, è necessario
non vedere la strada verso il fondo, se si vuole procedere senza lo sgomento ci
prenda alla gola. Le nuvole sul nostro capo, quelle che ci fanno ancora
sognare, segnano le giornate nelle quali perseguiamo lo scopo della vita:
evitare il dolore.