La faccia di Menico sembrava
rassegnata. Sulla fronte corrugata, brunita dal sole cocente di tutta un’estate
passata a sfiancarsi nei campi, due linee palpitanti, le sue vene, pareva
volessero scoppiargli, tanta era la rabbia per quel verdetto infame: “Non posso
darvi più di cento lire al quintale”, sentenziò l’uomo che gli stava davanti.
Aveva una mano allungata tra i grappoli che pendevano dal carretto e ne tastava
la consistenza, spremendoli fino a far colare il succo per terra. Menico, le
braccia conserte, si giro verso la moglie e le figlie che lo guardavano
affrante sul limitare della vigna. La più piccolina, una cosetta magra e
malata, fissò il padre con gli occhi pieni di lacrime come a dire: papà,
abbiamo lavorato come bestie, che abbiamo fatto di male? Il contadino non osò
tenere il loro sguardo e si girò verso il suo interlocutore, rassegnato a dover
accettare quella cifra da fame: “ Va bene, sempre meglio che morire di fame”. Ciruzzo
sfoggiò un sorriso di soddisfazione, misto alla consapevolezza che quella cifra
da strozzino avrebbe potuto far moltiplicare i suoi guadagni, una volta che
avesse portato quelle uve nelle cantine per la spremitura. Il compratore
napoletano frequentava ormai da anni l’Abruzzo. Aveva iniziato ad acquistare
vino all’ingrosso, andando in giro con il suo carretto. L’attività era andata
bene e così Ciruzzo aveva potuto acquistare un camioncino cassonato con il
quale aveva deciso di andare per vigne ad acquistare le uve, durante la
vendemmia. Da fine agosto fino ad ottobre, si recava sotto le vigne e, dopo
alcune trattative più o meno estenuanti, riusciva a persuadere i vignaioli o i
conduttori del fondo, a ceder il frutto del loro lavoro, convincendoli del
fatto che avrebbero ricavato molto di men o, se avessero voluto quelle uve da
soli: “Voi al massimo ci riuscite a fare l’aceto da far bere agli ubriaconi
nelle vostre osterie”. Ciruzzo era dotato di buona favella e ai cafoni della
zona, pareva parlasse come un signore, uno che conosceva come vanno le cose del
mondo. Erano tanti anni che faceva quel lavoro e spesso era riuscito a comprare
a bassissimo prezzo, delle ottime vendemmie, ricavandone ottimi profitti.
Viveva il resto dell’anno a Napoli, sperperando i denari nei postriboli della
zona e nei giochi d’azzardo. Spesso ero riuscito a concupire le giovani
lavoranti nei vigneti, mentre genitori e padroni vendemmiando. L’ultimo
settembre si preannunciava particolarmente fortunato per la vendemmia e
Ciruzzo, a secco di denari dopo le ultime gozzoviglie dell’estate, parti di
nuovo alla volta dell’Abruzzo, assetato più che mai dalla voglia di prendere
per la gola quei poveri bifolchi. Nutriva disprezzo per quella gente, sempre
china a lavorare e sempre più povera, dove la ciurma dei figli era impegnata
nel pascolo delle greggi e nella cura degli oliveti. Riteneva che non fossero
degni di trasformare in vino quelle
splendide uve e che a loro fosse dato da Dio, solo il compito di far sì che non
marcissero sulla pianta. Era arrivato sulla piana di Capestrano, una zona nuova
per lui e della quale non conosceva chi avesse possedimenti degni di essere
spolpati dalla sua avidità. Molti viandanti gli avevano parlato di questa
conca, capace di produrre uve straordinarie, adatte per i vini da far bere ai
signori del Vomero. In quella zona un solo proprietario possedeva la quasi
totalità dei vigneti. Tutta la vallata sottostante il paese di Ofena era
coperta da bassi filari dove meravigliosi grappoli riflettevano i raggi del
cadente sole settembrino. Solo un piccolo vigneto confinante con il
possedimento del signorotto, era di proprietà di Bastiano, un povero contadino
che aveva come unica ricchezza una piccola fattoria e quattro galline nel pollaio che
permettevano la sopravvivenza a lui e alla sua famiglia. L’uomo aveva deciso
già da tempo che avrebbe lasciato quel posto, per emigrare lontano, magari in
Canada, dove un caro cugino lo aspettava per aprire un’impresa edile. “Qui c’è
tanto lavoro ma con quello che guadagni si vive bene. Ci sono le scuole per
tutti e la gente è accogliente”. Queste frasi Bastiano le trovava sul retro
delle cartoline che il parente gli mandava ogni tanto. Si vedeva che faceva una
bella vita, perché sulle cartoline c’erano le foto di posti meravigliosi che il
cugino poteva visitare viaggiando, grazie ad una condizione economica agiata.
Con questa lontana speranza nel cuore anche in quei giorni l’uomo stava chino a
cogliere l’uva, quando sentì il rumore di un autocarro che si fermava lungo la
strada. Continuò a lavorare e non si accorse dell’uomo panciuto che si
avvicinava con passo sicuro alle sue spalle. “Uè, è tua questa vigna?” Bastiano
si girò. Ciruzzo era in piedi davanti a lui. “ Sì, che volete?” rispose il
contadino. “Vuoi fare un affare? Ti compro il raccolto” . Bastiano esitò. L’uomo
che gli aveva fatto la proposta non gli piacque. Da subito. Il contadino non
smise di lavorare e tuttavia in quel momento comprese che quel giorno avrebbe
potuto cambiare la sua vita. “Vediamo, io sono il padrone di tutte le vigne che
vedi e questa uva mi serve per fare il vino che vendo giù a Pescara”. Ciruzzo
si sentì spiazzato ma insistette: “ Se ci mettiamo d’accordo, tu di andare a
vendere il tuo vinello, non ci devi pensare più”. Bastiano si alzò. In quel
momento il sole stava tramontando e poteva essere sicuro di parlare senza che
altri avrebbero sentito le sue parole. Diresse il suo sguardo verso le immense
tenute del suo confinante. Non c’era nessuno. La vendemmia, da loro, non era
ancora iniziata e il fattore era ormai nella stalla a condurre le bestie a
riposo. “Sei sicuro che sarai in grado di pagare subito tutta questa uva” disse
il contadino indicando le terre del confinante. Ciruzzo era un commerciante
navigato e, nonostante sperperasse quasi tutti i suoi denari nei vizi,
tratteneva delle sostanziose cifre che gli permettevano di pagare i contadini
delle prime vendemmie e tornare nelle sue zone per rivendere le uve. Il
partenopeo estrasse dalla tasca dei pantaloni sdruciti un rotolone di banconote
da mille lire. Bastiano trattenne a stento la sorpresa: avrebbero potuto essere
almeno duecentomila lire! “Quando sei disposto a darmi al quintale?” Il
contadino si ricompose, mostrando freddezza. “Novanta o cento lire, tanto di
più la tua uva non vale” , disse Ciruzzo. “Centoventi o niente” rispose il
vignaiolo. Ciruzzo sapeva che, da quel raccolto fantastico avrebbe guadagnato
dieci volte tanto. Decise di adottare una tecnica che aveva provato con
successo con altri bifolchi: “ Ti anticipo i soldi del raccolto, se rimaniamo a
cento lire ma tu mi devi promettere che lavorerai giorno e notte”. Detto
questo, levò il legaccio dal rotolo di banconote che spiegarono come una
sindone in esposizione. Si leccò pollice e indice e, dopo aver dato uno sguardo
largo a tutto il vigneto, contò diciotto banconote da mille, sbattendole sulla
mano aperta di Bastiano. A conti fatti, i due si guardarono e, si strinsero la
mano. “ Ti lascio il camion a bordo strada. Ci vediamo domani mattina per il
primo carico.” Ciruzzo prese la bici dal cassone dell’autocarro e si diresse,
sbuffando verso il paese dove, gli avevano detto, esisteva una locanda dalla
quale si potevano osservare i vigneti anche la notte. Bastiano. Dopo che il
compratore si fu allontanato, chiamò a se moglie e figli: “presto andate a casa
e preparate le casse con tutte le nostre cose”. La moglie non comprese.
“Sbrigati” grido l’uomo. Era calata la notte. Lungo le filari i figli del
contadino iniziarono a sistemare le torce per illuminare il vigneto. Tirava un
leggero vento quella sera e Ciruzzo, comodamente seduto al tavolo della
locanda, guardava le fiammelle tremolare sotto la brezza notturna. Figure
evanescenti si aggiravano tra i filari e il drappeggio delle loro vesti si muoveva
alacremente nella foga della vendemmia. Il compratore era soddisfatto per che
quello si prospettava come uno dei migliori affari della sua vita. Bevve senza
ritegno tanto che, la mattina seguente, si svegliò relativamente tardi, con un
forte mal di testa: “Maledetti cafoni, lo sapevo che il vostro vino era buono
solo per uccidere le cimici”. Nella locanda trovo solo il vecchio oste. Ciruzzo
inforcò la bicicletta e iniziò la sua discesa, preparandosi ad effettuare il
viaggio con il primo caricò di uva. Arrivato in prossimità del vigneto dove
aveva lasciato la famiglia di Bastiano a lavorare, capì che c’era qualcosa che
non andava. Dov’era il camion? Sentiva sempre più assordante uno starnazzare di
oche. La sua sorpresa si tramutò in disperazione quando, sceso dalla bici, si
addentrò tra i filari che erano, stranamente, ancora carichi di uve non
raccolte. Nei lunghi camminamenti tra le viti, erano tese delle corde che
andavano da un capo all’altro del vigneto. Nelle corde correvano degli anelli
ai quali erano legate, per i collo delle anatre ricoperte di stracci colorati.
Queste anatre, in preda al panico per il fatto che fossero impossibilitate a
fuggire, correvano su e giù, lungo la corda, per tutta la lunghezza del
vigneto, starnazzando disperate. Ciruzzo, dalla finestra della locanda, nel
buio della notte, le aveva scambiate per vendemmiatori. Iniziò ad imprecare
prendendole a calci. Corse verso la grande masseria, in cerca del truffatore,
brandendo un coltellaccio, con l’intenzione di vendicarsi. Sull’aia, i fattori
del padrone dei vigneti che Bastiano aveva spacciato per suoi agli occhi del
napoletano, vedendo arrivare quest’uomo armato, misero mano agli schioppi.
“Ridammi i soldi Bastiano!” urlava Ciruzzo. La sua rabbia era incontenibile e
avrebbe sicuramente scannato il primo che gli fosse passato a tiro se un colpo
ben assestato del fattore più anziano non gli avesse trapassato la mano che
teneva il coltello. Quella stessa sera, presso il porto di Napoli, una
famiglia, lasciato l’autocarro in un piazzale distante, trascinava qualche
cassa, piena di povere cose e un paio di valigie, sulla nave diretta in
America.
sabato 16 marzo 2019
sabato 9 marzo 2019
Uelando
Uelando era un uomo
bellissimo. Non aveva un nome italiano. Il padre, infatti, molti anni prima,
aveva trovato questo nome dentro un vecchio libro nella stiva della nave che lo
riportava dagli Usa. Concezio, in gioventù, come molti meridionali, aveva
provato a cercare fortuna oltre oceano. A New York, aveva fatto molti lavori.
Non aveva conquistato nulla eccetto il cuore di una donna: Annette, una minuta
ragazza irlandese, dagli occhi di un azzurro profondo. La giovane lavorava in
una stireria e non aveva ottima salute. Si erano sposati in una piccola chiesetta,
al centro della comunità d'immigrati italiani e lui, dopo averle tentate tutte,
aveva deciso di tornare in Italia, pensando che l’aria fine del Gran Sasso
avrebbe potuto migliorare la salute di Annette. Il viaggio sul piroscafo fu
terribile, la giovane sposa era incinta e le sue condizioni si aggravarono
ulteriormente. Fu durante i giorni di traversata che trovò per caso quel libro.
Concezio non sapeva una parola d'inglese e la giovane sposa, tra un accesso di
tosse e l’altro, gli traduceva alcune pagine. Il libro conteneva alcune saghe
nordiche ed era riccamente illustrato. Tra tutti i racconti, Concezio fu
colpito dalla figura di Weland, il fabbro degli dei, quello che forgiò
Durlindana, la spada di Orlando. “Se mio figlio sarà un maschio, lo chiamerò
Weland” diceva, rivolgendosi ad Annette. La moglie gli sorrideva teneramente
sapendo, in cuor suo, che lei non avrebbe potuto veder suo figlio crescere. Riuscirono
in tempo ad arrivare a Loreto. Annette spirò subito dopo il parto tenendo
stretto il figlio sul suo grembo. Il piccolo fu chiamato Weland per volontà di
Concezio.
Tra i parenti ci fu una sorta di rivolta generale, data anche dal
fatto che era tradizione, a quei tempi, che i nuovi nati avessero lo stesso
nome dei nonni o di qualche santo protettore. “ Chi jè ssu’ Ueland?” Predicava
Nonno Zopito. Anche la nonna era contrariata e considerava la serie di
circostanze sfortunate accadute durante la nascita del bimbo, come una sorta di
maleficio. Una donna straniera, morta partorendo un figlio rosso come le chiome
secche delle pannocchie, dagli occhi azzurri come un demone tentatore e con un
nome così strano. Concezio non batteva ciglio ma dovette piegarsi all’ignoranza
dell’Ufficiale dell’Anagrafe, il vecchio Gino, il quale, prossimo alla
pensione, aveva con gli anni perduto l’udito. Non ci fu verso, nonostante
Concezio provasse a scandire il nome ad alta voce, Gino capì fischi per
fiaschi. Si alzarono alte le bestemmie quando il padre, una settimana dopo,
andò a chiedere una copia dell’estratto di nascita: il nome del bimbo era
destinato a rimanere per sempre “Uelando”. Così il piccolo crebbe tra la
bottega di fabbro del padre e i vicoli di Loreto dove i suoi coetanei
impararono a costruire mille giochi di parole sul suo nome. Nonostante questo
pel di carota dagli occhi blu crescesse in altezza e forza, tuttavia provava
una sorta di complesso di inferiorità rispetto agli altri ragazzi, forse a
causa del fatto che, essendo orfano, vivesse con la nonna che mal lo
sopportava. La vecchia non riusciva superare le sue superstizioni e trattava il
nipote giusto il necessario per non fargli mancare cibo e vestiti puliti.
Weland crebbe senza affetto, il padre non si rassegnava alla morte di Annette,
aggrappandosi alla speranza che il figlio crescesse solo per poterlo aiutare
nella fucina. Fu per questo che Concezio iniziò il ragazzo all’arte della coltelleria,
costringendolo a stare in bottega per ore, sottraendolo ai giochi di strada.
Weland guardava gli amici scorrazzare per il paese. Ogni tanto lo chiamavano
scherzando: “Uè Lando, Papà ti ha messo sotto?”. All’inizio questa condizione
parve dargli fastidio. In seguito, affinando le sue doti all’incudine, iniziò a
provare un sottile piacere nel forgiare coltelli e lame. Con gli anni, divenne
un uomo alto e vigoroso, il lavoro pesante gli aveva donato un fisico muscoloso
e tonico, il tutto unito a dei capelli rosso fuoco che ora teneva lunghi legati
con un laccio di cuoio. Su tutto, malamente nascosti dalle tracce di fuliggine
sul suo viso, spiccavano due occhi di un azzurro accecante, profondi e
ipnotizzanti. Il paese era piccolo, non era difficile che fosse notato,
soprattutto dalle donne. Weland non si sottraeva agli sguardi delle fanciulle
le quali, passavano davanti alla bottega ogni giorno. Spesso qualcuna, più
audace, con la scusa di ritemperare qualche coltellaccio da cucina, si
fermavano a parlare con lui. Il giovane fabbro non era un uomo di grande
conversazione ma bastava un solo sguardo per accendere in quelle ragazze un
desiderio irrefrenabile. Weland, forse alla ricerca della madre che non aveva
mai avuto, si sentiva attratto dalle donne maritate anche più grandi di lui.
Erano queste, in paese, un gran numero. Spesso da sole in casa tutto il giorno,
perché i mariti lavoravano nei campi o pascolavano le greggi o addirittura
emigrati in terre lontane, lasciando le consorti alla gestione della casa e
all'educazione della prole. Weland ebbe la sua prima esperienza con una delle
più graziose. Si recò da lei per ritirare alcune falci da affilare. Il marito
della donna era nei campi e sarebbe rientrato solo a sera, giusto il tempo
perché il fabbro potesse intrattenersi piacevolmente con la giovane. Altri
incontri seguirono a questo. A lei, Weland, fece dono di un coltello gobbo, con
il manico intagliato nell’ulivo. Sul manico una piccola scena di caccia, con un
segugio che puntava la selvaggina. Il marito della donna, notò il coltello
nella dispensa ma non si fece molte domande. Dopo qualche mese la donna rimase
incinta ma la cosa sembrò normale dato che, a quei tempi, le famiglie erano
numerose. Un sospetto velato colse l’uomo quando guardò il neonato per la prima
volta: capelli rossi e occhi azzurri. Molto
strano per una famiglia di contadini dai capelli neri come il carbone. Weland
non si fermò alla moglie del contadino. Iniziò ad intrecciare relazioni
clandestine con molte donne del paese e delle contrade. Ad ogni donna, il
fabbro regalava un coltello finemente intagliato, come pegno del suo amore e a
ogni donna lasciava il ricordo tangibile di un figlio illegittimo, un bimbo o
una bimba, dai capelli rossi e dagli occhi celesti. I mariti delle fedifraghe,
distratti dalle incombenze nei pascoli o nei campi, i quali trovavano nel vino,
l’unico momento di conforto alle loro fatiche, non avevano particolari motivi
di diffidare delle consorti. Con gli anni una piccola comunità di ragazzini dai
capelli rossi gironzolava per il paese. Weland era cosciente di ciò che aveva
combinato, ma continuava imperterrito nella sua attività di seduttore. Le cose
filarono lisce fino ad una fatidica fiera delle pecore, che si teneva in estate
presso Campo Imperatore. Alcuni pastori di Loreto e dei paesi vicini avevano
fatto salire le loro greggi, passando da Forca di Penne. Portavano anche i
figlioli per insegnar loro il mestiere della pastorizia. Fu quando le pecore si
furono radunato in gran numero sulla piana che i convenuti, arrivata sera, si
riunirono davanti ai fuochi per mangiare, bere e concludere le compravendite
del bestiame. Ogni pastore aveva accanto a se i propri figli. Giunta l’ora del
pasto, gli uomini estrassero dalle sacche i formaggi di loro produzione per
condividerli e avere dei pareri dagli altri circa la qualità degli erbaggi.
Alla luce del grande falò, quattro pastori si avvicinarono tra loro per
scambiarsi pezzi di pecorino. Tesero le mani nelle quali avevano i coltelli e
sulla punta della lama il proprio formaggio. Stranamente i coltelli sembravano
avere la stessa forma, la stessa lavorazione. All’inizio i pastori risero per
la coincidenza. Antò di Penne esclamò: “ Mimmuccio, chi te lo ha fatto questo
gobbo? E’ tale e quale al mio!” “ Lo avevo a casa nella dispensa, lo trovai
qualche anno fa, me lo ricordo perché mia moglie era incinta di Roccuccio il
mio secondogenito” A quelle parole, il figlio di Mimmo si alzò. Antò rimase
allibito. Non era possibile: il ragazzo aveva capelli rossi e occhi azzurri,
proprio come il suo Aligi che ora era seduto vicino al fuoco. Provò un brivido,
quando realizzò che, in effetti, anche lui non si ricordava bene di come fosse
capitato il suo coltello in casa. Una cosa la ricordava: lo aveva trovato
nell’armadio della camera quando la moglie era incinta di Aligi. Guardarono gli
altri due pastori i quali, erano rimasti impietriti ed ora si stavano girando
verso i loro figli, due agili ragazzetti dai capelli rossi e dagli occhi
celesti. Non dissero nulla. Sapevano benissimo che l’unico in grado di forgiare
simili coltelli, in zona, avrebbe potuto essere solo Weland. Quella sera, i
loro cuori si chiusero nella tenebra del tradimento subito. Mimmo era percorso
da un fremito di rabbia che gli saliva dalla gola e gli rendeva la fiamma di
quel fuoco insopportabile. Girò tra i commensali, osservando le mani di tutti
coloro che avevano coltelli simili al suo. Ne scoprì altri due. Loro non
avevano figli da iniziare al mestiere di pastori. La loro prole era composta di
femmine che ora si trovavano giù in paese. Con la scusa di voler comprare delle
pecore, fissò loro un appuntamento per parlare di affari, una volta tornati giù
a valle. Una volta a casa, nessuno degli uomini mostrò alle proprie mogli di
aver scoperto il loro adulterio. Tuttavia, nel loro sangue di pastori scorreva
ormai il fiume dell’odio. Iniziarono a mostrare disaffezione per quei giovani
figli che pur avevano creduto fossero carne della loro carne. Antò venne a
Loreto, recandosi da Weland perché gli forgiasse dei forconi per il fieno. Lo
guardò, mentre contrattava sul prezzo. Scrutava il colorito dei suoi lunghi
capelli, le linee del volto, la chiarezza profonda degli occhi, cercando di
negare una qualsiasi coincidenza su quanto accaduto nei giorni della fiera. La
figura giovane era innegabilmente simile a quella del suo Aligi: stesse spalle,
stessi zigomi. Gli sembrò di impazzire. Dopo alcuni giorni si riunirono per
concertare la vendetta. Decisero di lasciar passare qualche mese e di consumare
il delitto in un luogo dove potesse essere difficile accusarli di un crimine
efferato. Weland aveva da qualche tempo, preso a girare tra feste, e mercati,
per vendere i suoi coltelli e affilare
lame ma soprattutto, per consumare tresche amorose, lontano dal paese natio
ormai terra bruciata. In inverno si spostava verso la costa spesso e
volentieri, rimanendo fuori alcuni giorni con il suo carro. Mimmo studiò
attentamente gli itinerari del fabbro, per scegliere un paese nel quale non
avrebbero potuto riconoscere lui e i suoi complici. Non era stato freddo quel
gennaio. Weland aveva fatto mercato a Pescara e ora si dirigeva ad Ortona, in
occasione della festa di San Sebastiano. Il carretto cigolava lentamente lungo
la salita della Fonte Peticcio, una
strada che portava fino zona nord della cittadina, chiamata dagli abitanti lu’ frecavende. Il vecchio cimitero era
posizionato proprio in quel punto, una sorta di affaccio panoramico sul mare.
Weland rise cinicamente nel vedere le cappelle mortuarie e le lapidi
posizionate come se i defunti avessero potuto godere della splendida vista. Non
notò subito la donna seduta sul ciglio della strada. Quando si accorse di lei,
la donna alzò lo sguardo. Era vestita di nero, con uno scialle che le copriva
il capo. Dalla stoffa nera uscivano boccoli rossi, di un colore intenso e
brillante sotto la luce del grigio sole invernale. Il giovane fabbro rimase di
ghiaccio quando i suoi occhi sprofondarono in quelli della sconosciuta,
anch’essi di un azzurro profondo ed inquietante. “Non avreste per caso un po’
d’acqua?”. La donna pareva essere molto affaticata. Weland le porse il fiasco
che penzolava dal carro. “Sono venuta per la festa, perché mi hanno detto che
accadrà una cosa terribile”. Il giovane la guardò come se si trattasse di una
pazza “Siete sicuro di andare?” La viandante prese la mano del fabbro, fissando
il suo volto, quasi lo supplicasse ma egli ritrasse subito la mano
allontanandosi con il suo carro. Rimase colpito da quelle parole. Dopo poco
metri si girò quasi volesse chiedere qualcosa a quella sconosciuta. Sul ciglio
della strada non c’era più nessuno. Weland rimase colpito da quell’incontro ma
la folla dei pellegrini accorsi in città per la festa lo rigettarono nel lavoro
e negli affari. Anche i pastori erano arrivati in città e facevano di tutto per
non essere notati, avendo indossato vestiti da contadini, dopo un bagno decente
ed una rasatura approssimativa. Decisero di dividersi, per non dare
nell’occhio, dandosi appuntamento a Porta
Caldari con la promessa di studiare tutti i movimenti di Weland. Scese la
sera e tutti i pellegrini iniziarono ad ammucchiarsi nella piazza antistante
alla basilica di San Tommaso per il rito dei fuochi d’artificio in onore di San
Sebastiano martire. Il fabbro era in mezzo alla folla, al seguito di una
fanciulla di cui era divenuto cavaliere per una sera. I fuochi pirotecnici
iniziarono. I pastori, i quali si erano posizionati ai lati della piazza,
aspettavano un cenno di Antò per dar luogo al delitto. Weland stretto tra la
gente, teneva per mano la fanciulla, Entrambi osservavano attoniti il crescendo
dei fuochi colorati e dei boati di meraviglia della folla. All’acme delle
esplosioni, un uomo grido tra la folla: “Al fuco, al fuoco! La casa va a
fuoco!”. Scoppiò il panico. La folla impaurita spingeva, tentando di fuggire
dalla piazza, mentre i fuochi continuavano senza sosta. Fu allora che i pastori
si a tuffarono nella calca. Nel trambusto generale, Walden non si accorse di
forti braccia che lo prendevano e lo portavano fuori dal mucchio di persone
urlanti. Tutto terminò in pochi minuti. Nella piazza non c’era più nessuno. Al
mattino, l’urlo di una lavandaia che scendeva alla Font’a mare per lavare lenzuola, svelò il corpo di un uomo
penzolante sulla torre del Castello. Quando staccarono Weland dalla corda, sul
suo corpo trovarono conficcati sei coltelli da pastore, con il manico finemente
intagliato nell’ulivo.
Brano "Loving you" (Acoustic version) - Jonathan Wilson
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