mercoledì 13 febbraio 2013

L'aquilone

Era da un pò che la sentiva. Qualche volta si girava, di scatto, per vedere chi fosse. Il vuoto. Quella sensazione non lo abbandonava, si materializzava invece, in una mano stretta sulla spalla. All'inizio Nicola pensava fosse la mano amichevole di qualcuno, come un vecchio compagno che volesse sentire il suo contatto, dare il suo conforto. Invece no. Questa mano stretta sulla spalla era un freno. Dapprima, la sentiva leggermente appoggiata poi, col passare degli anni, si era fatta più pesante, più energica. La sua stretta ora si stava trasmettendo a tutto il corpo. La mattina Nicola, si alzava tentando di vincere quella forza che lo respingeva verso il basso, quasi a volerlo far rimanere seduto sul letto. Questa gravità aggiuntiva gli faceva scricchiolare le ossa, infiammare i tendini, piegare la schiena, aumentava impercettibilmente ogni giorno. Aumentava, cme il peso sui polmoni, di quelle centinaia di sigarette. Non pensava di poter arrivare a capirne la ragione. Quel mese fu tutto chiaro. Così, Nicola si sveglio quel mercoledì e mentre guidava la sua vecchia R4 sulla strada che costeggiava la marina, con la solida fredda mattina rossastra, capì: quella mano ere la verità. Inutile essere sfuggito per tutti questi anni, inutile aver pensato e fatto altro, inutile aver riempito la vita di cose, persone, lavoro. La verità era lì, un pò sopita, da questa fiumana di metabolismo portata all'eccesso. Alla fine cedette, perchè il respiro non si può trattenere così a lungo. Così la realtà si è presentata con il suo conto, dettagliato, analitico, fatto di voci chiare, senza sconti, molto salato. La verità è che per anni Nicola aveva vissuto nella provvisorietà, rimandando tutto al domani. Dai progetti di vita, alle cose materiali che spesso servono a tenere in piedi i progetti di vita, agli impegni con la società, agli impegni con gli amici, fino agli impegni con la famiglia. Se lui avesse tenuto questa condotta solo per se stesso, avrebbe creato danni esclusivamente alla sua persona, ma aveva fatto di peggio. Aveva costruito una famiglia sulla provvisorietà, sul "vedremo domani", sul "tra qualche giorno". Questo non era onesto.  Credeva, Nicola che il mio essere burbero potesse bastare a nascondere i suoii difetti, le sue incapacità. Probabilmente aveva tarpato le ali alla sua compagna, la quale si era affidata totalmente nelle sue mani, nella speranza di poter scappare dal suo padre padrone. All'inizio le sue parole erano piene di idee, intenzioni e progetti, anche piccoli, ma progetti. Ora non aveva il coraggio di formulare nessuna idea perchè sapeva di mentire a se stesso e a chi gli stava di fronte.Negli occhi dei suoi cari iniziava a notare i primi segni di cedimento, una timida rassegnazione per una vita che non avevano chiesto di vivere in questo modo insieme a  lui. Li vedeva, Nicola, stufi di dover sempre vivere al limite, di racimolare spiccioli anche solo per programmare una gita, di dover rimandare i sogni in un'altra stagione. Così questa mano che stringeva sempre di più la sua spalla, iniziava a fargli mancare il respiro, quando si svegliava la notte a fissare i fianchi della moglie che dormiva per non pensare troppo, quando avrebbe voluto dire qualcosa di carino, ma riusciva solo ad essere cinico, quando mi sarebbe piaciuto fare qualcosa, ma riusciva solo a dire che ormai era tardi e bisognava tornare a casa. Il telefono squillava in continuazione in ufficio, a casa e qualcuno si alzava a rispondere, a dire che non c'era, che sarebbe stato avvisato una volta tornato, una scusa per dire quello che non si era in grado di dire, che tutto era a posto, che tutto era regolare. La verità non era il suicidio, ma una lenta autodistruzione, a vincere, con un atto definitivo tutta quella provvisorietà, la verità era almeno chiedersi se tutto questo aveva avuto un senso in questi anni, solo per sentirsi vivo e dire "lo so fare". L'unica cosa che avrebbe potuto donare Nicola, era l'unica cosa che gli rimaneva: un pò d'amore verso chi aveva avuto fiducia in lui, tanti anni fa, come quel bambino al quale teneva l'aquilone, aquilone che gli scappò di mano, finendo nel bosco vicino alla spiaggia. Ancora lo cerco quell'aquilone.

sabato 2 febbraio 2013

Il parente









Tutto sommato gli volevo bene. Mi piaceva, il parente. Fin da piccolo provavo una naturale attrazione per quell’uomo che faceva lo stesso mestiere di mio padre ma, a differenza di mio padre, era disposto al gioco, alla scoperta, alla stupidata. Lui, uomo di campagna, mi aprì le porte ai segreti dei boschi, degli orti, alla caccia nelle piantagioni di tabacco, alle piccole storie di quella piana sulla quale, ancora, pascolava qualche mucca ed a primavera, si potevano raccogliere asparagi selvatici. All’imbrunire, ci si arrampicava sul gelso secolare al centro dell’aia, sul quale costruivamo gabbie per i merli catturati tra le macchie di querce e ginestre. C’era sempre un trattore da cavalcare, un arnese da intagliare nel legno. Fu lui, a differenza di mio padre, a capire che mia madre era incinta di mio fratello, fu lui a stare con me, sulle rive del lago, a scoprire la quiete delle acque e la pesca delle carpe. Così mi rimase nel cuore ed in lui riposi la fiducia come testimone, durante i rituali religiosi che accompagnavano i rovelli spirituali nella tarda fanciullezza. Mi facevo intanto grande, il lavoro con mio padre mi prese. Con il parente ci vedevamo spesso, durante le feste comandate, nei fine settimana. Lui con quell’aria di padre complementare, sempre pronto al discorso, allo scherzo. Poi arrivarono i problemi. Nel suo burbero silenzio, mio padre si chiudeva, tranne che nei conviviali in cui, preda dell’alcol, si lasciava in confidenze coi parenti. Il parente sopportava, stando al gioco, praticando la nobile arte della gaiezza moderata, lasciando al mio genitore la gestione dei deliqui. In quei tempi, stando spesso a contatto con mio padre, ne condividevo le gioie, le preoccupazioni. Cresceva in me il desiderio di non lavorare  con lui, una volta laureato, a causa delle sue ire e delle sue rigidità. Cresceva anche in me l’affetto per un uomo inadeguato ai tempi, convinto che ciò che spettasse lui di diritto non doveva essere concessione. Un uomo pignolo nei conti, tanto da dover mettere in difficoltà la propria famiglia. Mio padre non mi fece mai partecipe della pericolosa china economica nella quale stava dirigendo l’intera famiglia, compromettendo anche le fortune dei suoi cari. Il parente ogni tanto si affacciava in ufficio. Mi chiedeva dei miei studi, parlavamo del lavoro, mi rendeva partecipe e quasi collega. Poi, un giorno, la fine. La rovina economica giunse. Trascinò con sé tutto: famiglia, beni e possedimenti dei cari, l’ufficio, la mia laurea, il futuro. Mi ritrovai con una tuta da pittore a decidere del mio fato. Non mi arresi. Mio padre, no. Si trascinava, masticando anatemi contro il cielo, bruciato dal fumo, a maledire tramonti e mattine senza scopo. Lui, senza denari, ad elemosinare spiccioli da una moglie che lo aveva accontentato per non sentirselo tra i piedi. Lui, ancora innamorato, schiacciato dall’indifferenza di mio fratello al quale aveva rivolto solo distratte carezze e che ora lo ripagava con tanta amarezza per aver subito creditori in casa. Rimanevo io, col quale vi erano litigi accesi e lunghi discorsi. A mio padre volevo bene, nonostante tutto. Il parente intanto, mutava i suoi atteggiamenti. Dapprima dispiaciuto, si faceva ora preoccupato, poiché i beni indivisi erano alla mercè delle banche. Emerse l’animo contadino del possesso. Nell’animo dei miei consanguinei si avvitò il sospetto di una complicità truffaldina tra padre e figlio, la quale nascondeva, secondo alcuni, fortunate accumulate in segreto per fallir fintamente senza denari. Mi accorgevo che il parente mi parlava sì, con lo stesso tono cordiale, ma questa malcelava una totale diffidenza verso le mie risposte. Si giunse al sospetto che il mio lavoro, ora umile, fosse un paravento per calmare le acque e campare in seguito, col frutto del maltolto. Sentivo alitare su di me il vento del sospetto. Avevo timore di comprare anche un paio di scarpe, affinchè non mi venisse chiesto con quali soldi. Mio padre morì. Consumato da un tumore che lui stesso aveva progettato, si spense senza affetto. Arrivai tardi in ospedale. Avrei voluto dirgli che non era solo, che non tutto il suo amore era stato sprecato. Gli mancò, in ultimo, anche la mia parola. Fu cremato, senza Dio e senza uomini. Alla fine arrivarono le carte, i bolli, i tentativi di salvataggio ed il parente divenne l’interlocutore. Avevo ancora nella mente e nel cuore la sua figura di amico, con il quale potevo aprirmi e sul quale avrei potuto contare per salvare il salvabile. Una sera, nel suo ufficio, discutevamo delle modalità di salvataggio dei beni di famiglia ed io gli parlavo di quello che facevo e del lavoro che mi ero costruito per poter far vivere dignitosamente la famiglia che nel frattempo mi ero costruito. Nei suoi occhi notai una luce diversa. Mi invitò presso una bettola sottostante il palazzo, sede del suo nuovo ufficio, palazzo che aveva da poco acquistato. Da principio non capii. Era questo un angusto locale nel quale, vi erano disposti quattro tavolacci con squallide incerate a quadri bianchi e rossi.  Alle pareti, sporche, qualche stampa ed un frigorifero di bibite in lattina. C’era un vecchio bancone che dava verso una cucina sul retro. Seduti ai tavoli, una vecchia ubriaca con il fazzoletto in testa, un barbone e due anziani che giocavano a carte. Il parente sembrava trovarsi a suo agio in questo ambiente, cercando di propugnarmi questo squallore per tipicità ed esaltandomi le qualità del mangiare e del bere. L’oste, un uomo panciuto con l’occhio iniettato dal vino cattivo, ci portò salumi formaggi ed una caraffa di rosso. Il parente divenne gioviale in modo eccessivo. Mi porse da bere ed ogni tanto mi riempiva il bicchiere incitandomi alla libagione. All’inizio fui partecipe di cotanto conviviale anche perché fui coinvolto ulteriormente nella discussione circa gli aspetti del salvataggio dei beni di famiglia. Iniziai a percepire un’aria diversa, col passare del tempo e dei bicchieri. Il parente aveva un altro progetto per me: farmi bere fino a che sciogliessi la lingua e rivelassi segreti su me e mio padre, confermando i sospetti che da tempo erano nelle corde dei miei consanguinei. Il parente, memore delle debolezze di mio padre, loquace durante i banchetti familiari, pensava lo stesso di me: un essere debole, capace di leggerezze con un bicchiere di vino in più. Non avevo nulla da nascondere, ma lui sì. Per tutti questi anni era stato un Giano mentore, un uomo apparentemente paterno. Questa consapevolezza mi chiuse la gola e mi forzò ad un gelido sorriso per il resto della serata. Uscii da quella bettola, usando la stessa falsa cortesia del parente nel saluto cordiale. Chiuso in macchina, piansi. Ero veramente solo, adesso.