Tutto sommato gli volevo bene. Mi piaceva, il parente. Fin da piccolo provavo una naturale attrazione per quell’uomo che faceva lo stesso mestiere di mio padre ma, a differenza di mio padre, era disposto al gioco, alla scoperta, alla stupidata. Lui, uomo di campagna, mi aprì le porte ai segreti dei boschi, degli orti, alla caccia nelle piantagioni di tabacco, alle piccole storie di quella piana sulla quale, ancora, pascolava qualche mucca ed a primavera, si potevano raccogliere asparagi selvatici. All’imbrunire, ci si arrampicava sul gelso secolare al centro dell’aia, sul quale costruivamo gabbie per i merli catturati tra le macchie di querce e ginestre. C’era sempre un trattore da cavalcare, un arnese da intagliare nel legno. Fu lui, a differenza di mio padre, a capire che mia madre era incinta di mio fratello, fu lui a stare con me, sulle rive del lago, a scoprire la quiete delle acque e la pesca delle carpe. Così mi rimase nel cuore ed in lui riposi la fiducia come testimone, durante i rituali religiosi che accompagnavano i rovelli spirituali nella tarda fanciullezza. Mi facevo intanto grande, il lavoro con mio padre mi prese. Con il parente ci vedevamo spesso, durante le feste comandate, nei fine settimana. Lui con quell’aria di padre complementare, sempre pronto al discorso, allo scherzo. Poi arrivarono i problemi. Nel suo burbero silenzio, mio padre si chiudeva, tranne che nei conviviali in cui, preda dell’alcol, si lasciava in confidenze coi parenti. Il parente sopportava, stando al gioco, praticando la nobile arte della gaiezza moderata, lasciando al mio genitore la gestione dei deliqui. In quei tempi, stando spesso a contatto con mio padre, ne condividevo le gioie, le preoccupazioni. Cresceva in me il desiderio di non lavorare con lui, una volta laureato, a causa delle sue ire e delle sue rigidità. Cresceva anche in me l’affetto per un uomo inadeguato ai tempi, convinto che ciò che spettasse lui di diritto non doveva essere concessione. Un uomo pignolo nei conti, tanto da dover mettere in difficoltà la propria famiglia. Mio padre non mi fece mai partecipe della pericolosa china economica nella quale stava dirigendo l’intera famiglia, compromettendo anche le fortune dei suoi cari. Il parente ogni tanto si affacciava in ufficio. Mi chiedeva dei miei studi, parlavamo del lavoro, mi rendeva partecipe e quasi collega. Poi, un giorno, la fine. La rovina economica giunse. Trascinò con sé tutto: famiglia, beni e possedimenti dei cari, l’ufficio, la mia laurea, il futuro. Mi ritrovai con una tuta da pittore a decidere del mio fato. Non mi arresi. Mio padre, no. Si trascinava, masticando anatemi contro il cielo, bruciato dal fumo, a maledire tramonti e mattine senza scopo. Lui, senza denari, ad elemosinare spiccioli da una moglie che lo aveva accontentato per non sentirselo tra i piedi. Lui, ancora innamorato, schiacciato dall’indifferenza di mio fratello al quale aveva rivolto solo distratte carezze e che ora lo ripagava con tanta amarezza per aver subito creditori in casa. Rimanevo io, col quale vi erano litigi accesi e lunghi discorsi. A mio padre volevo bene, nonostante tutto. Il parente intanto, mutava i suoi atteggiamenti. Dapprima dispiaciuto, si faceva ora preoccupato, poiché i beni indivisi erano alla mercè delle banche. Emerse l’animo contadino del possesso. Nell’animo dei miei consanguinei si avvitò il sospetto di una complicità truffaldina tra padre e figlio, la quale nascondeva, secondo alcuni, fortunate accumulate in segreto per fallir fintamente senza denari. Mi accorgevo che il parente mi parlava sì, con lo stesso tono cordiale, ma questa malcelava una totale diffidenza verso le mie risposte. Si giunse al sospetto che il mio lavoro, ora umile, fosse un paravento per calmare le acque e campare in seguito, col frutto del maltolto. Sentivo alitare su di me il vento del sospetto. Avevo timore di comprare anche un paio di scarpe, affinchè non mi venisse chiesto con quali soldi. Mio padre morì. Consumato da un tumore che lui stesso aveva progettato, si spense senza affetto. Arrivai tardi in ospedale. Avrei voluto dirgli che non era solo, che non tutto il suo amore era stato sprecato. Gli mancò, in ultimo, anche la mia parola. Fu cremato, senza Dio e senza uomini. Alla fine arrivarono le carte, i bolli, i tentativi di salvataggio ed il parente divenne l’interlocutore. Avevo ancora nella mente e nel cuore la sua figura di amico, con il quale potevo aprirmi e sul quale avrei potuto contare per salvare il salvabile. Una sera, nel suo ufficio, discutevamo delle modalità di salvataggio dei beni di famiglia ed io gli parlavo di quello che facevo e del lavoro che mi ero costruito per poter far vivere dignitosamente la famiglia che nel frattempo mi ero costruito. Nei suoi occhi notai una luce diversa. Mi invitò presso una bettola sottostante il palazzo, sede del suo nuovo ufficio, palazzo che aveva da poco acquistato. Da principio non capii. Era questo un angusto locale nel quale, vi erano disposti quattro tavolacci con squallide incerate a quadri bianchi e rossi. Alle pareti, sporche, qualche stampa ed un frigorifero di bibite in lattina. C’era un vecchio bancone che dava verso una cucina sul retro. Seduti ai tavoli, una vecchia ubriaca con il fazzoletto in testa, un barbone e due anziani che giocavano a carte. Il parente sembrava trovarsi a suo agio in questo ambiente, cercando di propugnarmi questo squallore per tipicità ed esaltandomi le qualità del mangiare e del bere. L’oste, un uomo panciuto con l’occhio iniettato dal vino cattivo, ci portò salumi formaggi ed una caraffa di rosso. Il parente divenne gioviale in modo eccessivo. Mi porse da bere ed ogni tanto mi riempiva il bicchiere incitandomi alla libagione. All’inizio fui partecipe di cotanto conviviale anche perché fui coinvolto ulteriormente nella discussione circa gli aspetti del salvataggio dei beni di famiglia. Iniziai a percepire un’aria diversa, col passare del tempo e dei bicchieri. Il parente aveva un altro progetto per me: farmi bere fino a che sciogliessi la lingua e rivelassi segreti su me e mio padre, confermando i sospetti che da tempo erano nelle corde dei miei consanguinei. Il parente, memore delle debolezze di mio padre, loquace durante i banchetti familiari, pensava lo stesso di me: un essere debole, capace di leggerezze con un bicchiere di vino in più. Non avevo nulla da nascondere, ma lui sì. Per tutti questi anni era stato un Giano mentore, un uomo apparentemente paterno. Questa consapevolezza mi chiuse la gola e mi forzò ad un gelido sorriso per il resto della serata. Uscii da quella bettola, usando la stessa falsa cortesia del parente nel saluto cordiale. Chiuso in macchina, piansi. Ero veramente solo, adesso.
sabato 2 febbraio 2013
Il parente
Tutto sommato gli volevo bene. Mi piaceva, il parente. Fin da piccolo provavo una naturale attrazione per quell’uomo che faceva lo stesso mestiere di mio padre ma, a differenza di mio padre, era disposto al gioco, alla scoperta, alla stupidata. Lui, uomo di campagna, mi aprì le porte ai segreti dei boschi, degli orti, alla caccia nelle piantagioni di tabacco, alle piccole storie di quella piana sulla quale, ancora, pascolava qualche mucca ed a primavera, si potevano raccogliere asparagi selvatici. All’imbrunire, ci si arrampicava sul gelso secolare al centro dell’aia, sul quale costruivamo gabbie per i merli catturati tra le macchie di querce e ginestre. C’era sempre un trattore da cavalcare, un arnese da intagliare nel legno. Fu lui, a differenza di mio padre, a capire che mia madre era incinta di mio fratello, fu lui a stare con me, sulle rive del lago, a scoprire la quiete delle acque e la pesca delle carpe. Così mi rimase nel cuore ed in lui riposi la fiducia come testimone, durante i rituali religiosi che accompagnavano i rovelli spirituali nella tarda fanciullezza. Mi facevo intanto grande, il lavoro con mio padre mi prese. Con il parente ci vedevamo spesso, durante le feste comandate, nei fine settimana. Lui con quell’aria di padre complementare, sempre pronto al discorso, allo scherzo. Poi arrivarono i problemi. Nel suo burbero silenzio, mio padre si chiudeva, tranne che nei conviviali in cui, preda dell’alcol, si lasciava in confidenze coi parenti. Il parente sopportava, stando al gioco, praticando la nobile arte della gaiezza moderata, lasciando al mio genitore la gestione dei deliqui. In quei tempi, stando spesso a contatto con mio padre, ne condividevo le gioie, le preoccupazioni. Cresceva in me il desiderio di non lavorare con lui, una volta laureato, a causa delle sue ire e delle sue rigidità. Cresceva anche in me l’affetto per un uomo inadeguato ai tempi, convinto che ciò che spettasse lui di diritto non doveva essere concessione. Un uomo pignolo nei conti, tanto da dover mettere in difficoltà la propria famiglia. Mio padre non mi fece mai partecipe della pericolosa china economica nella quale stava dirigendo l’intera famiglia, compromettendo anche le fortune dei suoi cari. Il parente ogni tanto si affacciava in ufficio. Mi chiedeva dei miei studi, parlavamo del lavoro, mi rendeva partecipe e quasi collega. Poi, un giorno, la fine. La rovina economica giunse. Trascinò con sé tutto: famiglia, beni e possedimenti dei cari, l’ufficio, la mia laurea, il futuro. Mi ritrovai con una tuta da pittore a decidere del mio fato. Non mi arresi. Mio padre, no. Si trascinava, masticando anatemi contro il cielo, bruciato dal fumo, a maledire tramonti e mattine senza scopo. Lui, senza denari, ad elemosinare spiccioli da una moglie che lo aveva accontentato per non sentirselo tra i piedi. Lui, ancora innamorato, schiacciato dall’indifferenza di mio fratello al quale aveva rivolto solo distratte carezze e che ora lo ripagava con tanta amarezza per aver subito creditori in casa. Rimanevo io, col quale vi erano litigi accesi e lunghi discorsi. A mio padre volevo bene, nonostante tutto. Il parente intanto, mutava i suoi atteggiamenti. Dapprima dispiaciuto, si faceva ora preoccupato, poiché i beni indivisi erano alla mercè delle banche. Emerse l’animo contadino del possesso. Nell’animo dei miei consanguinei si avvitò il sospetto di una complicità truffaldina tra padre e figlio, la quale nascondeva, secondo alcuni, fortunate accumulate in segreto per fallir fintamente senza denari. Mi accorgevo che il parente mi parlava sì, con lo stesso tono cordiale, ma questa malcelava una totale diffidenza verso le mie risposte. Si giunse al sospetto che il mio lavoro, ora umile, fosse un paravento per calmare le acque e campare in seguito, col frutto del maltolto. Sentivo alitare su di me il vento del sospetto. Avevo timore di comprare anche un paio di scarpe, affinchè non mi venisse chiesto con quali soldi. Mio padre morì. Consumato da un tumore che lui stesso aveva progettato, si spense senza affetto. Arrivai tardi in ospedale. Avrei voluto dirgli che non era solo, che non tutto il suo amore era stato sprecato. Gli mancò, in ultimo, anche la mia parola. Fu cremato, senza Dio e senza uomini. Alla fine arrivarono le carte, i bolli, i tentativi di salvataggio ed il parente divenne l’interlocutore. Avevo ancora nella mente e nel cuore la sua figura di amico, con il quale potevo aprirmi e sul quale avrei potuto contare per salvare il salvabile. Una sera, nel suo ufficio, discutevamo delle modalità di salvataggio dei beni di famiglia ed io gli parlavo di quello che facevo e del lavoro che mi ero costruito per poter far vivere dignitosamente la famiglia che nel frattempo mi ero costruito. Nei suoi occhi notai una luce diversa. Mi invitò presso una bettola sottostante il palazzo, sede del suo nuovo ufficio, palazzo che aveva da poco acquistato. Da principio non capii. Era questo un angusto locale nel quale, vi erano disposti quattro tavolacci con squallide incerate a quadri bianchi e rossi. Alle pareti, sporche, qualche stampa ed un frigorifero di bibite in lattina. C’era un vecchio bancone che dava verso una cucina sul retro. Seduti ai tavoli, una vecchia ubriaca con il fazzoletto in testa, un barbone e due anziani che giocavano a carte. Il parente sembrava trovarsi a suo agio in questo ambiente, cercando di propugnarmi questo squallore per tipicità ed esaltandomi le qualità del mangiare e del bere. L’oste, un uomo panciuto con l’occhio iniettato dal vino cattivo, ci portò salumi formaggi ed una caraffa di rosso. Il parente divenne gioviale in modo eccessivo. Mi porse da bere ed ogni tanto mi riempiva il bicchiere incitandomi alla libagione. All’inizio fui partecipe di cotanto conviviale anche perché fui coinvolto ulteriormente nella discussione circa gli aspetti del salvataggio dei beni di famiglia. Iniziai a percepire un’aria diversa, col passare del tempo e dei bicchieri. Il parente aveva un altro progetto per me: farmi bere fino a che sciogliessi la lingua e rivelassi segreti su me e mio padre, confermando i sospetti che da tempo erano nelle corde dei miei consanguinei. Il parente, memore delle debolezze di mio padre, loquace durante i banchetti familiari, pensava lo stesso di me: un essere debole, capace di leggerezze con un bicchiere di vino in più. Non avevo nulla da nascondere, ma lui sì. Per tutti questi anni era stato un Giano mentore, un uomo apparentemente paterno. Questa consapevolezza mi chiuse la gola e mi forzò ad un gelido sorriso per il resto della serata. Uscii da quella bettola, usando la stessa falsa cortesia del parente nel saluto cordiale. Chiuso in macchina, piansi. Ero veramente solo, adesso.
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