Festa. Non ho mai avuto chiaro il
concetto secondo il quale, un individuo possa essere felice, attenendosi alle
disposizioni del calendario. La celebrazione “imposta”, mi ha sempre lasciato
un fondo di malinconia, per il fatto che fossi già proiettato verso la “fine
della festa”. E’ la stessa aria che si può respirare la domenica pomeriggio,
quando iniziamo a prendere coscienza del lunedì mattina seguente. Ma
l’allegria, di questi tempi, può essere pilotata in un giorno specifico, dato
che la nostra vita segue delle scadenze come quei timer che si trovano alle
fermate degli autobus di linea a Bologna. Parlo di allegria, perché la felicità
è un concetto che non può essere definito neanche da Umberto Eco in tredici
volumi. C’è un attimo di queste feste, che mi permette di fermarmi a ricordare
le volte nelle quali sono stato veramente felice. Solo adesso riconosco come
quella fosse felicità, perché allora non mi rendevo conto. Le feste con i nonni
erano la felicità. Due odori su tutto: il brodo di pallotte e cardone di nonna
Adele, il sugo con la pasta fatta in casa di nonna Velia. In quella casa con
l’affaccio sul mare, si ammucchiavano gli zii, i cugini, ognuno con le sue
storie, ognuno con il suo carico di aspettative per quel giorno insieme. La
nonna Adele in cucina con le figlie, le nuore, la vecchia suocera in un angolo,
vestita di nero. Passava il giorno, tra i giochi, la tombola, papà che cacciava
il vecchio telegrafo dall’armadio ed inizia a dialogare con nonno Camillo,
attraverso l’alfabeto morse. Il vecchio telegrafo che nonno aveva riportato
dall’ultimo ufficio postale nel quale aveva lavorato, il telegrafo al quale era
stato attaccato, tra le dune del deserto, durante la guerra d’Africa, ; il
telegrafo al quale papà si era attaccato per giorni, lui piccolino, aiutando il
padre a tradurre ed inviare telegrammi. In quelle poche righe che si battevano
nel soggiorno, tra la nostra impossibilità di capire cosa si dicessero, si
vedevano gli sguardi di due persone le quali avrebbero dovuto amarsi, ma non
riuscivano se non in quel momento. In un’altra scena, in un altro posto, sotto
il Gran Sasso, mi levavo la sciarpa dal freddo pungente. Subito mi accoglieva
l’odore del sugo di nonna Velia, ai fornelli sin dalla mattina presto. Nonno
era sempre in cantina, a tagliare prosciutti, ad affettare salami. Tutto
sembrava possibile. Quella piccola casa avrebbe potuto resistere a qualsiasi
terremoto, perché c’eravamo noi dentro. Guardavo i miei nonni, mia zia, mio
fratello piccolo girare per casa con i regali appena scartati, in uno scatto
senza tempo, una fotografia che non avrebbe potuto ingiallirsi mai. Guardavo
quella fotografia io, grande, sposato, quando i miei nonni, al termine del loro
viaggio, stringevano amorevoli, le mie piccole figlie. Accompagnavo mia nonna, lei
ormai quasi cieca, in quella casa che mi aveva visto bambino, nella quale era
lei a tenermi per mano. Ora le stringevo la mano, perché non inciampasse. Il
ricordo di quella mano stretta nella mia, è il mio regalo di Natale.