Non so spiegare perchè accade. Ho la malattia dei ricordi e so che questo mi porterà, con il passare del tempo, in una sorta di monomania nella quale rifugiarmi, eliminando il presente che andrò a vivere. Tra questi ricordi che si accumulano come la polvere sui libri che non leggo più, ci sono quelli che rappresentano, stupidamente, alcuni avvenimenti della mia infanzia, che non hanno alcun valore specifico ma che la memoria, in modo beffardo, ha salvato dalla vita vissuta quasi quarant’anni fa. I ricordi sono quelli di un bambino, in un palazzo di un quartiere residenziale milanese degli anni ’70, che aspetta il ritorno del padre dal lavoro. Mio padre è stato, nella storia familiare, l’elemento catalizzatore delle sciagure familiari, economiche e relazionali; l’uomo sul quale, le inadeguatezze di una famiglia del sud e dei suoi riti e pregiudizi ancestrali, hanno trovato martirio ed espiazione. Due ragazzi troppo giovani per sposarsi: l’una col desiderio di scappare da un padre tiranno, l’altro senza l’ausilio affettuoso di una figura paterna e narcotizzato da una madre la quale, pur di non averlo in mezzo alle palle, lo aveva fatto crescere a pacchetti di sigarette e piatti di pasta. Due ragazzi, di quelli che oggi starebbero a casa tranquillamente con i genitori, buttati dalla quiete bigotta delle loro provincie d’Abruzzo, in una città caotica e laboriosa, quale era Milano tra i sessanta ed i settanta, dove tutto poteva essere ed ogni fortuna avrebbe potuto essere costruita. Così un bambino, allora figlio unico, aspettava il padre, un padre incapace di gestire tutta quella vita, mentre una madre alla quale già non importava nulla di lui, preparava una cena fatta di pubblicità del Carosello. Aprivo l’armadio nel quale vi erano appese le cravatte. Papà faceva il rappresentante ed aveva una serie di vestiti di quelli che hanno fatto storia nella horror fashion degli anni ’70: larghi completi in velluto verde con pantaloni a zampa di elefante, camicie, dai colli che neanche Ricardo Montalban in Fantasilandia e le cravatte... Di quelle che ricordo, una era la più orribile creatura sartoriale (sebbene papà si servisse da un suo amico che aveva un negozio di alto livello dietro la Scala) che avesse concepito mente umana. Era marrone con rombetti ricamati in oro e spigoli a frange barocche, il tutto su uno sfondo arancione e beige. L’armadio aveva le ante ambedue dotate di specchi per tutta la loro altezza. Si otteneva un effetto particolare ed inquietante, ponendo gli specchi l’uno di fronte all’altro con un angolo particolare. Uno specchio rifletteva la mia immagine ed, allo stesso tempo, questa immagine veniva riflessa nell’altro specchio, il quale a sua volta , la rimandava nel primo, creando un effetto moltiplicatore fino a che l’immagine si perdeva in una sorta di limbo infinito in fondo agli specchi stessi. In quei momenti, io bambino, indossata la cravatta e messa un cintura in cuoio arancione, quasi ad atteggiarmi a novello supereroe, pensavo fosse quella la porta per entrare in un’altra dimensione sconosciuta e misteriosa. Mi trovavo, quindi, a richiudere in fretta e furia le ante dell’armadio, con il terrore di venire risucchiato negli specchi senza poterne più uscire. Suonavano alla porta. Papà era tornato. Nonostante i momenti passati da bambino con mio padre, siano rari ed egli ci abbia assicurato, con la sua inettitudine, a me e mio fratello, un futuro fatto di nulla e di vita alla giornata, questi sono ricordi indelebili, più indelebili di quanto lo siano stati quelli di mia madre che ci ha allevati con amorevole cura. O no?