sabato 29 marzo 2025

Mi si escludeva

 


Ultimamente sono arrivato alla conclusione di non essere gradito in taluni contesti. Quando ero bambino appartenevo alla categoria dei “vittimisti”, di coloro i quali provavano un sottile piacere nella dolorosa prassi dell’autoescludersi, immaginando la disperazione tra i convitati nei connessi dei quali mi privavo, sorpresi dalla mia assenza. Alla fine conclusi che, a forza del “vengo, no non vengo”, la gente si era rotta sufficientemente i coglioni, dando per poco significante la mia mancata presenza. Ero solito iscrivermi ad associazioni e partiti politici per poi produrmi in mirabolanti dimissioni che avrebbe dovuto stimolare gli altri ad implorarmi: “No, rimani, sei così indispensabile per tutti noi, come faremo senza di te” etc. etc. Ho scoperto, con gli anni, come i cimiteri fossero pieni di persone che si ritenevano indispensabili ed i fiori sulle loro lapidi erano così secchi da creare evanescenti composizioni nipponiche. Più volte ho annunciato ai miei amici che avrei abbandonato la musica ed ora che l’ho abbandonata veramente, il mondo ha continuato a sopravvivere e le mie chitarre a piegarsi a causa dell’umidità che ho in casa. E’ stato tutto un autoescludersi.

Ogni volta che ho visto qualcosa che non gradivo non trovavo di meglio che abbandonare il campo anziché combattere per cambiare quello che non mi piaceva. Ho provato a rimanere ma l’altro me usciva fuori inaspettato e indesiderato e tutto prendeva la solita piega. Il mio “andarmene” avrebbe dovuto essere seguito da conferenza stampa con dichiarazioni roboanti e folle inneggianti al tornare sui miei passi. Una vita spesa tra scene dai film di Nanni Moretti e congressi di un Calenda al due per cento. Gli anni sono passati tra un prendere e un mollare. In seguito è arrivato il matrimonio ed i figli. L’esclusione è diventata naturale. “No, tanto Gianluca non può venire perché ha i figli, meglio di no” oppure “Avrà da fare con la famiglia, al massimo andrà ai buffet dei genitori dell’asilo”. Ho provato anche i taluni contesti a solidarizzare con persone le quali ritenevo fossero a loro volta escluse ma ho scoperto che anche il più sfigato veniva invitato agli aperitivi del dopo calcetto. Pensavo di essere una persona piacevole, mi ritenevo simpatico addirittura. Poi ho iniziato a lavorare da solo e questo ha dato il colpo di grazia. Alla mia età e non me ne vogliate se vado a premere questo tasto, è giunto il momento di ammettere che i dubbi che avevo durante le tormentate esclusioni, si facessero certezze nell’ammettere i miei numerosi difetti, difetti che ho voluto sempre negare a me stesso.

Non sono un mediatore. Non riesco a concepire il grigio se non in quei vestiari che possano creare un tono su tono con la mia barba. Sono talmente convinto delle mie ragioni da poter rinunciare a posizioni di comodo piuttosto che essere accomodante. Ora, se si tratta di muovere le truppe per sferrare un attacco, essendo un generale, questa cosa potrebbe funzionare ma, in un contesto civile, la pratica della rigidità di vedute è deleteria per qualsiasi carriera si voglia intraprendere, dalla politica al sindacato dei netturbini.

Interrompo spesso l’interlocutore, deviando il discorso su esperienze personali, le quali reputo più interessanti rispetto a quelle che vorrebbe espormi chi mi sta davanti. Chi è gentile non mi manda affanculo, gli altri sono molto meno diplomatici

Ho la tendenza a rovinare situazioni di serenità apparente, lamentando eventuali peggioramenti dovuti all’ineluttabilità della morte o della malattia

Non so lavorare in team, come si dice adesso, essendo convinto che le mie soluzioni siano le migliori e le altre proposte possano portare al fallimento

Ho abitudini totalmente differenti dagli altri. Non amo il calcio, non ho particolare interesse per le auto, non ho busti di Mussolini a casa, non detesto i froci, odio i neo melodici napoletani e disprezzo chi usa i dopo barba dolciastri perché rivelatori di personalità disturbate.

Cerco furbamente di avere ascendente verso i colleghi più giovani, i quali non mi conoscono e non possono contraddirmi sulle mie esperienze vantate

Dico a tutti che la mia vita è una “leggenda” enunciando le numerosissime attività che ho svolto. Il problema è che le informazioni su di me le enuncio nella prima mezz’ora di conversazione, spingendo l’ascoltatore a dubitare della veridicità di ciò che millanto, prendendomi per un cazzone bugiardo.

Leggo libri, ascolto musica che non ascoltano tutti gli altri, vedo film che la maggior parte della gente trova noiosissimi, preferisco fare una passeggiata piuttosto che andare al bar, bere fino a ruttare, formulare apprezzamenti su donne che passano, ingaggiare una maschiale gara di sputo radente.

Non rispondo alle telefonate delle poche persone che mi vogliono veramente bene, trasformandole in persone che mi vogliono poco bene

Non sono più comunista ed ho tendenze filo israeliane questo forse a causa della partita iva e dei libri di Amos Oz e cosa ancor più grave: ho letto il “Foglio” per dieci anni e ascolto Radio 24 da sedici.

Questi sono i difetti che farebbero desistere qualsiasi persona sana di mente dalla volontà di chiamarmi anche solo per uno spritz.

Ultima difetto: ho scritto questo testo per gridare a tutti la mia esclusione e per far si che chi lo legga possa dire: “ma no, cosa dici, non è vero, tutti gradirebbero la tua presenza aspè che domani ti chiamo”.

 

venerdì 21 marzo 2025

La biblioteca di Babele


D
omenica scorsa ho rimesso in ordine i libri. Non sono libri qualsiasi. Queste pagine incollate tra di loro, con copertine dai vari colori, piene di angoli piegati ed ingialliti, sono quelle dei libri della mia vita di lettore, una vita che è iniziata trentasette anni fa. Non c’entrano nulla con la mia età anagrafica perché io ho iniziato a leggere “veramente” solo nel 1988. Non che prima non leggessi, sia chiaro. Prima ero un lettore svogliato, un ragazzino al quale venivano sottoposte letture da parte dei genitori i quali pensavano che esistessero libri che mi avrebbero fatto scoccare la scintilla. Ho provato con le letture degli autori che andavano per la maggiore quando ero ragazzo. Tutto però mi pareva noiosamente invalicabile. Da Verne ad Asimov, non riuscivo a trovare nulla eppure i mobili della casa nella quale vivevo, erano stracolmi di letture alle quali avevo libero accesso. Così i libri che sceglievo esclusivamente per le figure sulle copertine, rimanevo a prendere polvere sul comodino della mia cameretta. Niente da fare fino a vent’anni. Fu allora che qualcosa di improvviso mi impressionò, non ricordo bene se una trasmissione di Zavoli ed un libro seguito a quelle inchieste ma arrivò un momento nel quale nacque l’esigenza, l’urgenza di mettere il mio nasone tra le pagine di un libro qualsiasi. Iniziai furiosamente a divorare delle pubblicazioni di Biagi, seguite dai romanzi di Piero Chiara fino a spingermi verso delle vecchie edizioni di Einaudi tra le quali possedevo Sciascia, Stajano. Avevo un paio di libri di Brancati che fu il mio scrittore guida per alcuni mesi tanto che volli acquistare la sua opera completa. Le due visioni della provincia italiana quelle di Brancati e Chiara, mi affascinavano profondamente, così mi spinsi al centro dove trovai Moravia ed i suoi personaggi carichi di malessere e tormento. Pieno di entusiasmo, mi affidai alle letture cosiddette “di formazione” affrontando l’opera omnia di Herman Hesse ed in seguito tornai in Italia per Pratolini, Fenoglio e Pasolini. Mi costrinsi a tutto Eco, mi persi in Flaiano, Fogazzaro. Sono stato un giovane lettore appassionato, fedele, a tratti incostante ma, ad ogni libro letto corrispondeva un posto sicuro sullo scaffale. Ho iniziato ad accumulare libri con lentezza o velocità a seconda delle possibilità economiche, talora sono stato vittima di acquisti compulsivi e feticismo editoriale. Negli anni, dopo il matrimonio, lo scaffale, un vecchio mobile posseduto da mio padre nel suo ufficio, cambiava colore a seconda delle case nelle quali andavamo in affitto e degli arredi che potessero rendere l’idea di una casa illusoriamente nostra. In seguito è arrivato un vecchio scaffale alimentare dei primi del novecento, di quelli che svettavano dietro il banco di vendita sui quali si posizionavano i contenitori delle spezie. Negli anni, nelle differenti abitazioni, ha iniziato a riempirsi di Amado, Parise, Borges, Celine, Ellroy, McCarthy, i Roth, Dumas, Cervantes, Carrere, Zweig, Zafon, Oz, Richler Faulkner, il mio amatissimo Turgenev, l’adorato Maugham, la letteratura ebraica, i grandi romanzieri contemporanei statunitensi. Pochi italiani, lo ammetto, ma confesso che non ho grande stima per i miei connazionali contemporanei, tranne Camilleri. Sostengo infatti che molti di loro, dopo i grandi romanzi del ‘900 sulla seconda guerra mondiale, si siano malamente buttati sul giallo seriale più adatto ad essere venduto dentro cestini delle offerte nei discount. Ad ogni libro è legato un momento della mia vita tale da farmi scordare il contenuto del libro al quale questo ricordo si incarna. Al contrario, la visione di quel libro nel punto in cui è posizionato sullo scaffale, materializza il ricordo stesso, il periodo nel quale sfogliai quelle pagine e gli avvenimenti di quella stagione. I libri perdono la loro corporeità ma è grazie alla scomparsa dell’oggetto cartaceo che prendono vita i ricordi. I libri sono i ricordi e senza i libri probabilmente non avrei un archivio preciso di quello che è stato in questi quarant’anni. Arrivato a quest’età, inizio a guardare con sufficiente scetticismo ai consigli di autorevoli individui i quali sostengono che molti libri andrebbero riletti. Ho fatto subito una botta di conti. Se dovessi fermarmi di colpo ne l’acquisto di libri nuovi e dovessi ripartire da zero, dovrei avere altri trentasette anni a disposizione per iniziare a rileggere il primo libri da lettore ufficiale del 1988 ed arrivare alla ragguardevole età di novantaquattro anni con l’ultimo libro che ho acquistato: trattasi di “Fatu Hiva” dell’esploratore Thor Eyredahl. Arrivato a questa veneranda età, dove avrei scordato quello che avrei riletto per la seconda volta, potrei ricominciare una nuova vita da lettore di libri mai letti, forte soprattutto di questo scritto che mi ricorderebbe perché l’ho fatto e quanto tempo prima. Per questioni biologiche non mi rimarrebbe molto da leggere e soprattutto da vivere. Ho deciso quindi, andando in culo agli autorevoli intellettuali (i quali penso che abbiano avuto la possibilità di rileggere libri perché, in verità ne hanno letti pochi) di non rileggere alcun libro e che quello che è passato non deve tornare perché è inutile che torni, così come i ricordi legati alle sue pagine. Stando così le cose, mi sembra inutile continuare a conservare oggetti che non utilizzerò mai più ma che serviranno solo per fare conversazione con ospiti che non hanno mai letto e potranno fare solo osservazioni critiche con i propri congiunti, una volta congedatisi da noi, tipo “Ma tutti quei libri non sono un ricettacolo di polvere ed acari”? Consapevole della vecchiaia incombente la quale realisticamente consiste nel non sopportare gli altri e le cose, sento il bisogno degli spazi vuoti aperti, di aria, di affrancamento dagli oggetti. Voglio morire leggero, magari con una bella camicia fresca di bucato, un paio di pantaloni di lino, dei mocassini di cuoio intrecciato e un mezzo toscano tra le labbra. Voglio morire davanti un bicchiere di rabarbaro e acqua tonica, seduto ad un bar. Sul tavolino un paio di occhiali ed un libro nuovo che ho appena iniziato a leggere nel quale lascerò un segnalibro, delegando a chi verrà il compito di terminarne la lettura.

domenica 20 marzo 2022

La clessidra

Non è più il tempo di scrivere. Non metto insieme due righe dai tempi del lockdown. Non è stato facile per me, da sempre abituato a condividere sensazioni, emozioni e la cronaca del tempo che passa. Il tempo se ne frega di quello che stati combinando, non ti viene a cercare, non ti chiede di essere quello di prima. Per la prima volta, nella mia vita, sono riuscito a pianificare il progetto di “scomparire” lentamente dalla vita di questa cittadina la quale, negli anni, si è rivelata essere il mio naturale avversario. Non è il mio posto e non perché io meriti di più ma per il fatto che è il luogo sbagliato in un tempo sbagliato. L’anno scorso il mio account google maps ha calcolato come io abbia percorso una volta e mezza il giro del mondo, questo grazie al mio nuovo lavoro. Ho visto le nebbie della pianura padana, il caldo della Sicilia a febbraio, i tramonti sulla riviera ligure, il rosso del crepuscolo sui laghi del nord, la calma disperata della laguna veneta, le lunghissime sere della primavera svedese.
Ho lavorato tra i campi di colza vicino Goteborg, ho respirato l’aria di un cimitero di guerra tedesco sulla linea gotica, ho visto Firenze deserta, i canali del Ticino tra le zanzare, le pause tra i mosaici di Ravenna, le meraviglie delle cinque terre, la pioggia sulla baia del Silenzio. Tutto questo e altro potrei scrivere per far comprendere quanto Ortona stia scomparendo dai miei progetti come una foto ormai scolorita dagli anni. Avevo creduto, avevo sperato di sentirmi parte di una città che non avevo scelto ma alla quale dovevo qualcosa. Sbagliavo. Ho realizzato che è stata colpa mia. Non era il modo giusto. Volevo essere partecipe ma ero già escluso a priori. Ho ferito le persone credendo di essere la vittima. Tuttavia ho sempre avuto la convinzione che nessuno fosse indispensabile e sono giunto alla conclusione che, quando le cose non funzionano, sia giusto lasciar perdere e passare la mano. La clessidra del mio tempo è stata capovolta per l’ultima volta e credo che questi anni che rimangono, sia doveroso dedicarli ai miei affetti, al lavoro, alle letture, ai paesaggi che vedrò, agli stranieri che incontrerò, alle emozioni di un attimo, alle passeggere felicità, a una canzone che conoscerò, a un libro che mi farà ancora commuovere.

lunedì 20 gennaio 2020

Ognuno ha il suo imbuto



Ho iniziato ad avere coscienza dell’imbuto all’età di vent’anni. Prima non ci pensavo. Credevo di vivere eternamente sul piano non inclinato della giovinezza. Ogni luce era più luce ed ogni amore era l’amore. Ci si infiammava per una parola non detta, bruciati dallo sguardo di una ragazza qualsiasi. I dolori erano palpabili e ingiusti ma brevi come l’entusiasmo per una canzone passata improvvisamente alla radio. Quando si è presentato l’improrogabile, il gesto con il quale decidi di dare un percorso alla tua vita, è giunto il momento di entrare nell’imbuto. All’inizio ci camminavo sul bordo, imprudente, ignaro della sua meravigliosa levigatezza, arrogante dei muscoli che mi trattenevano dallo scivolare dentro troppo in fretta. Li avevo visti, tanti amici, cadere velocemente fino al punto più stretto: il primo che mi fece impressione fu Massimo. Qualche giorno prima eravamo andati giù al mare insieme a Paolo. C’era tempesta e le onde scavalcavano il muro del molo nord. Decidemmo di scommettere su chi non si sarebbe fatto colpire dalle onde, correndo velocemente lungo il marciapiede ad occhi chiusi. Tornammo a casa bagnati fradici e divertiti. Qualche tempo dopo, Massimo andò via, a causa di una macchina troppo vecchia per affrontare la strada. Compresi, da allora, come l’imbuto fosse reale e spettava a noi seguirne la discesa obbligata e al tempo stesso arbitraria, tentando di farlo meno velocemente possibile. Talvolta ho conosciuto persone incapaci di accettare la strada, qualcuno avrebbe voluto risalire la parete, aggrappandosi ai bordi. 
Con gli anni, il bordo dal quale, i miei occhi di ragazzo gettavano oltre lo sguardo, si è fatto sempre più alto, come un muro di cinta. Sono costretto ad alzare la testa per vedere le nuvole o il sole, bisogna farlo, è necessario non vedere la strada verso il fondo, se si vuole procedere senza lo sgomento ci prenda alla gola. Le nuvole sul nostro capo, quelle che ci fanno ancora sognare, segnano le giornate nelle quali perseguiamo lo scopo della vita: evitare il dolore.

martedì 7 gennaio 2020

Il fantasma del Natale qualunque

Mi era concesso posizionare  i babbi Natale di cioccolata, rivestiti di stagnola, sull’albero in plastica che avevamo comprato al Carrefour. Un albero triste come può esserlo solo un abete di plastica. Delle poche cose presenti alla base di questo affare fatto di ferro filato e aghi di poliestere verde, più di tutte mi affascinava  il regalo aziendale concesso benevolmente dalla premiata ditta nella quale lavorava come agente. Lo immaginavo , insieme agli altri colleghi, ammucchiati nella sala riunioni, sorbirsi il discorso di fine anno del megapresidente galattico. Tutti dovevano sorridere, giulivi del prezioso dono. Il cesto troneggiava come un non precisato scrigno dei tesori abbastanza malcelati. Un panettone Alemagna dalla confezione azzurra, ci ricordava, con l’effigie del Duomo, la lontananza dall’Abruzzo, seguiva un torrone bianco Sperlari, troppo duro per i denti da latte della mia fanciullezza. Uno spumante Gancia dal tappo in plastica bianca si appoggiava dolciastro, al panforte Sapori. Non riuscivo a spiegarmi come mai fosse consentito quello spargimento indiscriminato di canditi, dolciumi che odiavo con sommo disgusto, tanto che il cesto era per me qualcosa di semplicemente inutile. Tuttavia ero convinto che avesse una certa importanza per mio padre quasi fosse una sorta di promozione sul lavoro.
Con il passare degli anni compresi come i cesti non sempre rappresentassero qualcosa di positivo ma divenissero, con il tempo, una specie di anestetico per una scalata sociale che non sarebbe mai avvenuta. Nonostante tutto l’albero aveva una zona “vuota” nella quale, durante la notte della vigilia, Babbo Natale avrebbe posizionato i suoi doni per me. Uno dei primi che ricordo era un robot in latta che si caricava a molla ed aveva un bulbo in plastica verde che emetteva una lucina intermittente, grazie ad un sistema simile a quello dell’accendino, azionato dalla carica. Tra i regali memorabili della mia infanzia, un proiettore in plastica e la pista Polystil con due macchine che potevano essere condotte a folle velocità, dopo aver montato il tracciato. L’apice della felicità fu raggiunto durante la notte dell’Epifania quando i miei genitori, organizzarono per me, una sorta di caccia la tesoro, tramite bigliettini nei quali vi erano degli indovinelli che mi avrebbero permesso di scoprire la collocazione dei doni. Da quella divertentissima esperienza ho il ricordo del primo gioco da tavolo della mia vita: “Colpo grosso a Topolinia”, con le pedine a forma di Basettoni, Topolino e Macchia nera. Mi chiedevo con chi avrei giocato visto che ero figlio unico ed il mio miglior amico era tornato in Puglia per le vacanze. Fu lì che iniziai a coltivare la creatività nella solitudine. La solitudine è una condizione che implica soprattutto il concetto di perdita. L’assenza, la mancanza sono stati che possono essere declinati non solo a presente ma indifferentemente al futuro. La mia intima essenza di materialista mi porta a considerare la perdita fisica di persone o oggetti come qualcosa di irreparabile. Non ho speranze di poter relazionarmi con chi ho perso, in una dimensione diversa da quella che sto vivendo. Ciò produce una sorta di dolore continuo e costante che aumenta con il sommarsi delle perdite. La stratificazione delle assenze diventa così, un rumore di sottofondo che condiziona le giornate fino a diventare un sibilo insopportabile. Troverei molto più semplice e rassicurante pensare ad una seconda possibilità per le cose e le persone. Sono riuscito a superare anche il rimpianto e la nostalgia e questo ha moltiplicato il dolore perché lo ha reso ingiustificato, immutabile.Chiunque possieda una fede o un credo, può cercare la serenità ne l’immateriale che genera speranze. Io credo nella profonda “essenza del tangibile” che mi consente di vivere le cose e le persone ora e definitivamente. Alla mia età si iniziano a fare i conti con quello che è stato e quello che rimane, ci si sente come il viaggiatore di Caproni davanti al cartellone degli orari dei treni. Molti rimpiangono i “Natali di una volta” quasi che quella condizione che molti ricordano come “idilliaca” potesse essere replicata infinitamente e generasse lo stesso tipo di sensazione. Giudico questa nostalgia come qualcosa che si avvicini molto alla paranoia.  Siamo stati una sola volta, per ogni istante della nostra vita e non c’è possibilità di replica. Immaginiamo per un attimo che la nostra mente “finita e temporale” replicasse la stessa identica situazione per un numero imprecisato di volte: quella che un tempo avrebbe potuto essere una condizione di gioia e felicità, diventerebbe ben presto un incubo ed un’agonia. I Natali sono fatti per passare, per essere diversi gli uni dagli altri. Per questo motivo, non ci saranno più piste giocattolo sotto il mio albero o panettoni immangiabili, regalati da megadirettori generali.

giovedì 12 dicembre 2019

Ballare nel '69


Avevo un anno e mezzo. Abitavamo da poco a Milano. Quando accadde, mio padre decise che sarebbe andato ai funerali delle vittime. Molti erano già sicuri della matrice terroristica. La cerimonia fu partecipata, migliaia di milanesi erano presenti, silenziosi, attoniti. Papà mi raccontava la strana atmosfera allo sfilare delle bare. Anche il cielo era divenuto oscuro, color del piombo. La storia ha coperto i responsabili ma ha reso la verità più chiara a chi ha voluto leggere oltre le appartenenze. 

La polvere si muove nell’aria seguendo le correnti invisibili che entrano dalle vetrate in frantumi. Il silenzio. Piccoli incendi divampano nei mucchietti di carte e indumenti. Cadono frammenti di marmo dalle pareti rivestite. Sul pavimento, lunghe strisce di sangue terminano sui vestiti dei fattori, dei bovari, arrivati in città per gli affari. Una valigia, una scarpa, un urlo di chi cerca i suoi brandelli di carne. Le figure, in piedi, come fantasmi, barcollano sorde, in cerca dell’uscita. La città è fuori, e sul marciapiede sembra non esserci nessuno. La piazza si riempie di fari, luci arancioni, voci e lamenti. In mezzo all’ampio salone si apre la voragine per il centro dell’abisso. Le anime ci entrano, fino a scendere all’inferno. Lo puoi vedere, il vuoto che lascia quel pozzo dentro lo stomaco delle persone che si affacciano lungo l’orlo. Ci sono i fogli per terra, ma non ti serviranno. Quando stasera i ragazzi ti avranno aspettato invano per cena, dopo aver dato da mangiare alle bestie, qualcuno bussera’ alla porta. Aprirà il figlio, quello maggiore, al quale hai giurato di passare l’azienda, con i cavalli e le vacche. Perché gli hai raccontato che solo la terra non avrebbe mentito anche quando l’avresti bagnata col sangue. Un carabiniere giovane, mandato dalla caserma, dirà ai tuoi, che è successo qualcosa a Milano, una bomba dentro una banca. Il toro ora sbuffa, nella stalla. Lo hai strigliato prima di andare. E’ il maschio da esibire alla fiere, quello che ti darà la progenie migliore. L’occhio triste della bestia guarda invano nel buio come a cercare il padrone che gli stringa il giogo. Il tuo ultimo respiro a fissare il solaio annerito dal fumo. La bestia ora china il capo, perché, prima o poi, arriverà il beccaio e tu, Alfio,  non sarai lì a fermare la sua mano.


martedì 10 dicembre 2019

Viaggio della morte del Sud (Capitolo 3)


“E’ tornato Pietro! Pietro!” Il reduce si presentò, cappello in mano, nello studio del Conte. Il povero Barone era morto, facendo maritare Cecilia ad un proprietario confinante, il Conte di Scarano, un gentiluomo avanti negli anni.  “E così tu saresti il fattore, quello che stava tanto a cuore al mio povero suocero?” “ Sì Signore, e vorrei chiedervi di tornare a servire la Signoria vostra. Non chiedo che di tornare alle mie bufale.”

“Dovrò parlare prima con la mia consorte, donna Cecilia”, rispose il conte. A Pietro si strinse il cuore, come se una tenaglia volesse staccarglielo dal petto. Lui era rimasto fedele a l’amore impossibile. Ma la terra aveva bisogno di famiglie pronte a coltivarla. Non avrebbe potuto esistere niente tra un bovaro ed una baronessa. Cecilia era stata ai voleri del padre, perché le terre venissero condotte da un altro par suo.  Così, nel secondo anno di guerra, davanti al notaio Di Salvo, il matrimonio fu combinato senza l’amore. Cecilia aveva accettato quel vecchio storpio come una rosa accetta la morte.