venerdì 3 febbraio 2017

Mastro Achille



Oggi volevo comprare un paio di scarpe. Le mie hanno iniziato a sfaldarsi. La pelle della tomaia, in corrispondenza del mignolo si è aperta, lasciando intravvedere la calza di lana rossa. Se cammini, il buco si nota poco, ma non puoi fare finta di niente. Quel punto rosso sulla scarpa attirerà l’attenzione , prima o poi. La gente ricca la riconosci da cosa porta ai piedi. Ho sempre avuto una fissa per le scarpe. Mi fermo a lungo, davanti alle vetrine, dove i manichini, dagli abiti più o meno eleganti, sono completati da un paio di calzature coordinate, poste ordinatamente, bel lucidate. Talvolta può trovare il prezzo a fianco e renderti conto se quella scarpa possa rappresentare un valore abbastanza adeguato da poter entrare nella tua lista dei desideri. Altre volte, per decenza, non c’è il prezzo. Allora ti chiedi quanto possa effettivamente valere quell’oggetto il quale, facilmente, esula dalle tue possibilità. Mio padre aveva il piede cavo. Non riusciva a portare i mocassini. Doveva, per forza, indossare calzature con i lacci. Aveva amicizia con il calzolaio del paese, il quale portava stranamente il suo stesso cognome. Il calzolaio lavorava, in una piccola bottega del centro storico. Seduto per ore dietro al banco, affogato in quell’odore penetrante di cuoio vecchio, scarpe usate e colla al solvente. Parlava tutto il giorno con il suo cane, un meticcio che riposava sotto la vecchia macchina da cucire, che lo guardava con occhi umidi e languidi, ogni volta che Mastro Achille, questo il suo nome, gli rivolgeva la parola. Papà inizio a farsi confezionare delle scarpe su misura. La sera trovai un paio di stivaletti di pelle di capretto, con la chiusura lampo, posati nel bagnetto di casa. Mastro Achille era un vecchio calzolaio e la foggia di quegli stivaletti risultò essere alquanto datata. Nonostante tutto, mi meravigliavo di come mio padre avesse cambiato umore, da quando aveva quelle scarpe. Mi diceva di non aver mai camminato tanto comodamente da quando aveva iniziato ad indossare quelle scarpe. Con regolarità, mio padre si faceva confezionare un apio di scarpe. A seconda delle stagioni e usava quelle piccole opere d’arte minore, fino a quando si riducevano a delle ciocie consunte ed inguardabili. Un giorno mi portò da Mastro Achille e volle regalarmi un paio di scarpe su misura. Era la prima volta che qualcuno si interessava ai miei piedi ed io mi prestai con curiosità ed imbarazzo, a farmi misurare da quell’uomo dalla punta dell’alluce fino alla caviglia. Le scarpe che mi fece, erano brutte ma, dopo mezz’ora dall’averle indossate, riuscì a comprendere la differenza tra una scarpa acquistata ed una scarpa su misura. Mio padre stava male, non aveva soldi, iniziò a non farsi fare le scarpe da Mastro Achille ma si ostinò ad indossare l’ultimo paio di stivaletti che il calzolaio aveva fatto per lui, fino al giorno della sua morte. Nella bara portava le sue vecchie scarpe. In seguito, barattai la tinteggiatura della bottega di Mastro Achille, con un paio di scarpini bianchi e neri, da musicista jazz. Portai un vecchio libro fotografico nel quale, durante un minstrel show, un vecchio cantante, con la faccia dipinta con il carbone, recitava la parte di un negro sempliciotto. Aveva ai piedi delle scarpe, con i lacci, lucide, stupende. Mastro Achille osservò quella foto con l’aria di chi trovi improbabile imbarcarsi in un’opera più difficile del previsto. Dopo un mese ebbi le mie scarpe. Le possiedo ancora oggi, chiuse nella scatole, riempiti di carta morbida, per conservare la forma. Le uso qualche volta, quando vado a suonare. Se potessi, le indosserei ogni giorno ma non potrei permettermene un altro paio, se dovessi rovinarle. Le scarpe misurano il grado della tua felicità. Nei grandi negozi dei centri commerciali, riesco a passare delle ore alla ricerca della scarpa ideale. Amo esaminare le cuciture, le sfumature del colore, il luogo di produzione della scarpa, se ci sono sbavature di colla, se hanno la punta troppo rotonda, troppo panciuta, se la punta è troppo accentuata, se ha una forma ”stupida”. Detesto le fibbie, le perline, i lacci dai percorsi complicati, odio le scarpe con lo strappo, quelle che hanno la pelle con parti di diverso colore. Mi piacciono le scarpe blu, quelle rosso scuro, amo il marrone, odoro la pelle, esamino la larghezza del tacco. Rimetto la scarpa sull’espositore, sperando di tornare presto per poterne concretizzare l’acquisto. Stasera continuo a guardare il buco sulla mia scarpa, di tomaia scamosciata, comprata l’anno scorso ai saldi e penso a come le cose possano cambiare in poco tempo. Un buco non avrei potuto tollerarlo, tempo fa. Sarei andato da mio padre ed avremmo provveduto ad andare in un negozio a comprare le scarpe adatte alla stagione in arrivo. Il buco appare meno visibile quando ti rendi conto che quel buco te lo devi tenere e lo devi chiudere nel miglior modo possibile. La mia scarpa azzurra da jogging, anni fa, fu sottoposta ad un lavoro di patchwork estremo, quando mi resi conto che la stoffa del dorso si stava riempiendo di buchi. Iniziai una ricerca di pezzi di stoffa delle  stesso colore. Fatti alcuni piccoli ritagli, iniziai a tempestare la superficie della scarpa con questi brani di pezza, cuciti in modo dozzinale. Doveva piacermi quella scarpa, non avevo altra scelta. Ho capito allora, come ci si possa adattare ad una nuova situazione e come i gradini di una scala, visti con orrore dall’alto, qualche attimo prima, una volta scesi, non sembrano così ripidi. I giorni del calzolaio sembrano persi nel buco della memoria, nonostante Mastro Achille sia ancora vivo e continui a lavorare nella sua piccola bottega. Il suo cane è morto da anni, mio padre è morto da anni. Ogni tanto mi fermo a salutarlo, lui rimane dietro il suo banchetto, sempre più curvo, rivolgendo distrattamente lo sguardo sotto quella vecchia macchina da cucire, quasi vedesse ancora il suo cane lo guarda con gli stessi occhi lucidi d’amore. Anch’io guardo nella sua bottega, come a voler scorgere un paio di stivaletti in fase di ultimazione, nell’llusione che, mio padre fosse passato ancora una volta a volerne ancora perché, nonostante tutto, dobbiamo continuare a camminare.