venerdì 29 maggio 2009

La bestia migliore


La mia carne ha uno strano odore. Quando la benda si strappa e viene buttata, intrisa di sangue vecchio e suppurazioni, lo sento l’odore. Ricordo le parti del maiale, appena salate, sul tavolo di campagna, quando si uccideva la bestia migliore, sotto Natale. Quando il mio cranio, dette diretto, sulla soglia dei davanzali, durante la caduta, l’odore del sangue caldo, come il leggero afrore del rosso d’uovo nel piatto. Ora ascolto i nuovi cigolii delle membra ricomposte nelle sedi. Era entrato un dottore, giovane, forse finocchio, a dirmi che le ossa, da quel giorno in poi, le avrei sentite presenti, muoversi, con rumore rotondo, sfregarsi tra cartilagini allentate, immerse nel siero fino a gonfiare la pelle, in sacche da svuotare con l’ago, quello grosso. L’aria del reparto è satura di minestra e mele bianche inacidite. Ho la nausea perché respingo l’odore di me stesso. Le bestie lo sentono il puzzo della paura, lo sentono il puzzo dell’uomo malato. Come una bestia avverto l’odore di un involucro umano sbattuto dai piani alti, ad atterrare sui ferri spigolosi di un montante. Il calore, mi sveglia la notte. Sale dallo stomaco, dallo scroto, dal buco del culo, intirizzito da una contrazione inane. Ora guardo il mio vicino. Un obeso, flaccido giovanotto con una gamba inutilizzabile. Andava, il tipo, per un vecchio deposito di robivecchi, in cerca di pezzi d’autore, quando una lastra di vetro, da una vecchia porta impilata, gli recise il tendine d’Achille, di netto, facendolo stramazzare a terra come un manzo abbattuto. Difficile operazione - andava rimuginando il primario, con il codazzo di apprendisti. Mi guardava con l’occhio della commiserazione, cercando di pareggiare la sua disgrazia alla mia. Mentre parlava, amplificando il suo fato, non rispondevo, ma scoreggiavo silenzioso, non avendo altro da fare, tra un tirante ed un gesso, impastato di sudore. Se ne andò, con la carrozzella delle dodici. Solo di nuovo, con il diavolo che mi alitava sul volto la notte. Dio beffardo, mandami un uomo a pezzi, che faccia sentire quello che è stato per me, poca cosa…

martedì 19 maggio 2009

Asilo incubo


Un cenno del capo. Sotto l'androne alternato di ombre e fioche luci dalle porte a vetro, si espande l'odore di cartelle e mani sporche di astucci e sudore. Una processione, sabba inverso,di suore silenziose taglia in due il corridoio, al suono di scarpe vecchie di cuoio. Sono uscito dalla stanza, dove gli aliti dei piccoli corpi, si mischiano alle corde delle brandine in ordinato cerchio. L'occhio terribile, come del falco che abbia avvistato dall'alto del suo volo la preda, mi punta dal nero velo. E' l'occhio di gesso della madonna a lutto, che orribile fissa il cristo morente nellea tenebra della morte. Un urlo, voce metallica di un kapò, lungo il filo spinato del lager, mi ordina di rientrare. E' l'ora di dormire. Nessuno dei miei piccoli compagni può sottrarsi alla pratica obbligata del sonno. Ma io non riesco. Voglio giocare. Vorrei correre nello stanzone vetrato dove langue un girello scrostato di rosso. Cigola sotto la spinta di noi bambini, quando lieti ci guardiamo nel mondo che gira. Non ricordo i volti, ma ricordo la gioia semplice di un bambino sfuggito agli aguzzini, che gode pochi istanti di un gioco innocente. La suora è un Satana androgino, dalla mano fredda che mi spinge nella stanza del sonno. Non voglio, non voglio. Ora vengo costretto a sedere in lacrime, nel mio banco. Non ricordo. Ho pianto per ore. Una lunga candela di muco mi scende da una narice, le mie mutande sono piene di merda. A sera, quando ho perso oramai la voce e la forza, una mano caritatevole e familiare di sottrae all'agonia della regola. Sono di nuovo nei bagni, prima di pranzo. Bisogna lavarsi. La norma impone le mani, oltre il polso. Ma il bagno si trova , fatta una piccola salita piastrellata, nella sala dei giochi. Non si può giocare prima di aprire i nostri cestini. La suora bagna la salita con il sapone, affinchè i nostri piedi scivolino nel tentativo di raggiungere le giostre. Siamo lì, in fila, che tentiamo di tenerci al muro per affrontare il pendio. Ma il fondo sembra d'olio, i piedi non reggono, torniamo indietro inchiodati, come in quei sogni dove vuoi scappare ma la tua corsa è inane. Altro ambiente. E' L'ora di fare i propri bisogni. Le suore, come negli allevamenti dei cani di razza, tentano di regolarizzare le nostre viscere imponendoci la seduta sui vasini. Vogliamo scappare dal patibolo anale. Ma le torturatrici coi crocifissi al collo, ci ficcano il lembo del grembiule sotto il vasino affinchè ci sia impedita la fuga. Troie, troie! Urlò mio nonno, quando si accorse che tenevano la figlia maggiore, incatenata in soffitto con il tifo, in mezzo ai topi, nonostante avesse pagato rette salate. L'odio per la rinuncia alla procreazione nei grembi, l'impedimento alla funzione di madri, spinge queste donne, serrate nelle vesti della castità, a vendicarsi su piccoli inermi, costringedoli ad una disciplina insensata, fatta di punizioni protratte e continuate, torture psicologiche a piegare gli animi lieti, cristi punitori, vendicativi anche sulle anime semplici di nuovi alla vita. Crescono figli amari, chini ai terrori dell'altare, timorati delle tonache, proni alle leggi senza una causa. Un Dio non dio le ha fatte maschi, senza i sessi. Nel mio sogno, apro i cancelli dei conventi. Libero queste donne alla vita, perchè possano amare , con il corpo, con la mente, affinchè un nuovo Dio, benevolo questi, sorrida alle loro esistenze, le liberi dalle stupide rinunce della mortificazione, inflitte da maschi misogini. Siano troie allegramente, senza le colpe della carne. Continuo ad essere stitico, per principio, comunque.

domenica 10 maggio 2009

Reek of putrefaction

Non ho mangiato carne per tre mesi.
Saturo di cadaveri bovini ho rigettato l’idea del sangue per un lungo periodo a causa della mia stessa materia. Nel gonfiore della sazietà ho immaginato l’azione del vomitare eternamente brani di fese, sottospalla, ali, petti, ventresca. Nel chiarore del mattino autunnale, stretto nel dovere di un padrone chiamato cliente, accetto senza attenzione un lavoro in un piccolo cimitero della zona. Non ho particolare ritrosia nell’affrontare i silenzi delle tombe, anzi l’ovattata atmosfera dell’ambiente dona al lavoro un ritmo meno serrato ed una attenzione altrimenti meno costante in altri consessi. Sono nella cappella di famiglia di un mio amico e lavoro alla sua sistemazione. La cancellata principale si apre ed entra un camioncino dei necrofori. Si tratta delle solite operazioni che loro definiscono di routine, come la riesumazione di resti umani sepolti da anni per la conservazione nell’ossario, in modo da liberare posti per i morti che saranno. I morti nonostante abbiano in sé la fine della nozione di tempo, possono essere riportati per epoche e stili di inumazione. Ma questo è un cimitero particolare. Nei volti, nelle età che leggo avidamente sulle lapidi, è raccontata una storia di estrema miseria e di emigrazione. Una zona estremamente povera che ha visto il partire per altre nazioni come possibilità di salvezza. Chi è rimasto è stato stretto nella morsa della malattia, della povertà. Così negli sguardi di questi uomini, queste donne, miei coetanei, ma così vecchi da sembrare miei trisavoli, ritrovo le carestie di queste paese, dove oggi vengono a morire solo i pensionati. Le foto in bianco e nero, sono scattate, come in un macabro rituale, sul letto di morte. Una fila di bambini, stretti nelle loro fasce, gli occhi serrati nel freddo del nulla, vecchie con il fazzoletto nero, le mascelle strette, gli spigoli duri delle fronti. Forse è il mio Abruzzo, quello che non ho mai voluto vedere. C’è una sorta di strana assonanza con la Basilicata dei Sassi di Matera, quella della civiltà del destino ineludibile, della vita come peso, dell’inanità sugli eventi. Una voce mi risveglia dai miei pensieri. Il necroforo ha bisogno di me. Mi chiede se ho un demolitore perché la lapide della cappella non viene giù. Mi adopero per aiutarli, visto che ho gelosia di riavere i miei attrezzi. Si lavora con delle mascherine e già la cassetta per le ossa che verranno trovate è aperta sul prato vicino. La lapide cede, dalle polverose macerie emerge una vecchia cassa, di quelle intarsiate, ancora laccata di lucido. La scendiamo in tre. La cassa è pesante, e stranamente, non si è sfondata. Mi racconta il becchino preoccupato che di solito una cassa si sfonda a causa della corrosione da parte del liquido di putrefazione. Il fatto che la cassa sia intera, vuol dire che il processo non si è compiuto. Ci mettiamo i guanti. Un giovane necroforo, secco ed allampanato, inizia a rompere il legno della bara. Ai nostri occhi appare come un bozzolo, l’involucro rigonfio di zinco. Sembra una bomba in procinto di scoppiare. Ci guardiamo con sempre maggiore preoccupazione. Con una martellina molto affilata, si inizia ad aprire la lamiera come fosse una scatoletta di tonno. Veniamo investiti dal puzzo della morte. Un puzzo di morte antica che si propaga immediatamente in tutta l’area circostante. Sotto il sole del pallido autunno, riusciamo a malapena in una confusa identificazione dell’ammasso che ci troviamo davanti: la cassa, stranamente , non contiene un morto ma due. Nel liquame putrido, di ossa, vestiti impregnati di una fanghiglia marrone, un tempo carne viva, due corpi,una moglie ed una marito, morti a poca di stanza di tempo, condividono la stessa tomba, divisi da uno strato di zinco ormai consunto. Sotto la moglie, si vede una melma verdastra nella quale galleggiano le ossa del congiunto. Lo spettacolo riesce ad impressionare anche il più vecchio tra i becchini. Non si può tornare indietro. Così, muniti di guanti, tuta e maschere si procede ad estrarre queste ossa ancora inzuppate, per comporle nelle cassette dell’ossario. Più tardi, i tecnici della disinfestazione provvederanno a bonificare l’area. E’ difficile avere il ricordo degli odori, se questi non vengono richiamati alla memoria da un odore simile. Nonostante la tuta e due bagni consecutivi, mi sento nelle narici un olezzo indelebile che impregna qualsiasi cosa mi arrivi alla vista. Mi guardo allo specchio e vedo me stesso, annegato, in quella mota putrida. Vedo il mio corpo, lo vedocambiato rispetto a quello che avevo da giovane, lo prevedo vecchio, cadente, lo vedo morto. Tutto quello che sono, quello che sento, tra qualche anno sarà solo un fastidioso affare per un becchino svogliato.