domenica 26 aprile 2009

La confessione


La libreria era piena. Padre Camillo ficcò con forza l’ultimo quaderno che aveva appena terminato. Il quaderno era uguale a tutti quelli che riempivano quegli scaffali: nero, piccolo, anonimo come le altre decine di quaderni. Anche l’ultimo peccato completava l’ultima pagina. Il parroco li archiviava da vent’anni. Un buco nel confessionale faceva il resto. Il prete riusciva a veder il peccatore. A sera ,nella sua camera, annotava, descriveva, ricordava. Le pagine di quei diari erano la triste realtà di quel posto con pochi cristiani e molti praticanti. La cosa singolare era che Padre Camillo, non rileggeva mai quello che aveva scritto. Lasciava tutto lì, nella pagina, per qualche improbabile erede, qualcuno che avesse vent’anni di tempo per sbirciare nelle mediocrità del popolo. Quella mattina faceva freddo in chiesa. Qualche devoto era seduto sugli sgabelli e Padre Camillo si andò a mettere nel confessionale. Sarebbe venuto qualcuno. Sentì le ginocchia poggiarsi sul legno. Fu allora che dette una sbirciatina nel buco. Ma non vide la persona in faccia. Era alta e portava un abito scuro come il fondo della navata. Parlò. Quella voce, il prete , non l’aveva mai sentita. Sembrava di ascoltare mille peccati del mondo. Da quelle parole, arrivavano alla mente del sacerdote, ricordi lontani, forse sovrapposizioni, forse coincidenze. Non se ne curò molto. A sera, nella sua camera provò a decifrare il senso di quei racconti. Il nuovo quaderno era appena iniziato, con quella massa di peccati usciti dalla bocca dello sconosciuto. Lo sconosciuto arrivò anche il giorno seguente. Tornò per giorni e giorni. Il quaderno stava per finire. Questa volta, Padre Camillo lo aveva riempito velocemente. Fu quella sera. Padre Camillo era all’ultima pagina, ma era stanco. Tentò di rimettere a posto il quaderno nello scaffale. Spinse, facendo forza ,sulla costa di quel registro rigido e consunto. Ma il quaderno non entrava nella fila. Spinse ancora di più e fu allora che la sedia cedette sotto i suoi piedi facendo cadere l’intero scaffale ed il suo contenuto. Padre Camillo si ritrovò sotto la pila di quaderni vecchi. Aveva ancora quello nuovo in mano. Ce ne erano molti aperti per terra. Con un gesto di stizza, scagliò quello che stringeva per terra. Anche questo si aprì al fianco di un altro. Padre Camillo gelò. La pagina era scritta in maniera identica. Sembrava una copia perfetta l’uno dell’altro. Il prete afferrò il quaderno più vecchio...era il primo quaderno che aveva compilato vent’anni prima! Ebbe un mancamento, cadde sul mucchio di carta. Si ricordò il delirio di quella notte, si ricordò di aver vagato tra i banchi della chiesa leggendo ad alta voce quel quaderno. Ora era seduto nel confessionale. Aspettava solo che arrivasse. Sentì il legno adagiarsi sotto il peso. La voce era quello di qualcuno che imperioso detta l’ultima pagina di un quaderno incompleto. Impazzì dal terrore, quando l’essere, dall’altra parte del confessionale chiese a padre Camillo: « Hai altro da confessare, prete?». Un ghigno malefico, coprì le urla del sacerdote...

domenica 19 aprile 2009

Mi viene a trovare


Papà mi viene a trovare. Silenti le suole di gomma sul linoleum sconnesso dell'Ospedale. Reca una busta, stretta dietro la schiena, le mani unite. Una coppetta di gelato, di quelle col biscotto finale. C'è un tumore che porta dietro, al bronco ed al polmone sinistro. Anche questo mi porta, come il gelato. Non sono in camera. Mani forzute e stanche del mio essere prono, mi hanno adagiato su una vecchia carrozzella. Dicono che devono disinfettare la stanza. Posano il mio Cristo vivo, sulla nappa sdrucita del sedile, con l'asciugamano sotto al culo. Con la mano del braccio ingessato, pinzo la ruota per spingermi. Fuggo dal corridoio del reparto, su questa carrozza da storpi, in mutande. Le labbra del taglio alla milza, cucite come un arrosto di Pasqua, rossastre di croste e infezioni guarite, si riflettono sul vetro della porta. Le guardo passando, ruotando, ruttando bestemmie alla Madonna di gesso con fiori di plastica, all'ingresso. Se spegni i pensieri, su una vita intera di carrozzella, l'esercizio del moto seduti, anche piacevole potrebbe apparire. Ma subito torni al volto dell'amico tuo, in catene sulle rotelle, incastrarsi tra il marciapiede e la ruota di un Suv, deriso da ragazzine, che avrebbe potuto avere in mezzo alle gambe, se funzionassero. La vedi e senti, istantanea, la scossa dell'arnese che ti trasporta, come un insetto urticante. Il tuo corpo la respinge. Guardo oltre la vetrata di una sala d'aspetto deserta nel mattino estivo di sanatorio. Lo vedo, papà, uscire dall'ascensore, col sacchetto. Non si accorge di me. Non mi vede sulla carrozzella, non vorrebbe vedermi e così il suo cervello offusca ed annienta la possibilità di un figlio burattino, fantoccio, cosa morta su ruote. Poi si gira, senza parole, realizza. Volto grigio, rughe marroni. Alza la mano, odora ancora dell'ultima sigaretta fumata all'entrata, due dita gialle, mi tirano indietro i capelli. Vorrei non vedesse. Mi spinge in camera. Il gelato si scioglie.

sabato 11 aprile 2009

Le foto sono pietre


Sulla pietra bianca di questo lastrico al sole,
si riflettono, non visti,
gli aloni delle mie anime morte.
Sono respiri, dietro al collo,
che sento, tra i suoni rotondi, delle acque all'unisono.
Quadri di roccia, regolari, come i denti di chi sorride all'obiettivo.
Le foto sono pietre, quando le pietre cadono,
rotolando sul riquadro battuto dai venti.
Questa isola di silenzi, dove le nostre mani non hanno tempo,
rimane, come roccia,
nei miei sogni.

venerdì 10 aprile 2009

La fine della strada


Nonno, raccontami ancora: cosa c'è alla fine della strada?
Niente, Gialluca mio...Niente
Mi tenevi per mano fino a quel mandorlo, e poi?
Ti lasciavo andare nel baratro.
Che faccio, io, adesso, qui senza te?
Taglia le radici dell'albero, Giallù...

lunedì 6 aprile 2009

L'Aquila

Gianluca Di Renzo
L'Aquila
26 Agosto 1968

Era la mia città.

venerdì 3 aprile 2009

Terapia

38 gradi. Dai vetri sudici della camera, un sole diretto, violento, fa ribollire l’aria . Senza sosta, senza pietà, il sarcofago di gesso che avvolge le parti offese di questo corpo è una crosta di vulcano. Tutto brucia, prude, senza possibilità di essere grattato, di essere lenito. Sento l’odore della carne tumefatta e sudata di un corpo immobile ma vivo, prodromi di una piaga da decubito dove l’infermiere amico carceriere della mia infermità, metterà le mani, con strane pomate. Sono in un forno, ma vivo. Lento entra il dottore, zuppo di sudore, sotto il camice, nudo. Lo guardo. E’ il dottore che seduce, dentro ripostigli inutilizzati, le infermiere puttane, pronte all’uso, nella noia del turno di notte, tra i silenzi ed i ronzii delle macchine a tenere in vita i malconci. Un dottore stanco di queste sofferenze buttate tra le lenzuola, cambiate sovente. Questa notte lo strazio. Da una camera lontana, il lamento di un maiale allo scanno, di una donna. Fratture esposte, in suppurazione, di una caduta tra degenti di un ospizio. La donna languiva da giorni nello scantinato senza soccorso. Urla ritmate, appena mani misericordiose sfiorano il suo corpo, come una corda di violino rovente sotto le dita del musico. Sono urla dagli inferi che fanno vibrare le sbarre di vecchio alluminio del mio letto, le cassa monolitica del mio scafandro, il mio petto sudato. Non posso dormire. Potrei essere io, come quella donna un giorno, un uomo vecchio, inutile perché tale, abbandonato da figli crudeli, nel baratro di un caseggiato di cura assieme ad altri grinzosi canuti, dementi, incontinenti, fetenti, dagli sguardi persi nella delusione di genitori che avrebbero amato una carezza dai figli nell’ultimo giorno dei loro respiri, ricevendo al contrario, il dono terribile della morte da soli. Se fossi io quel vecchio, alzerei tra i tormenti questa carcassa di lividi, per trovare un finestra dalla quale gettarmi senza rimpianti. Non mi è neppure concesso un suicidio.